Elisa: Donna E Professionista Con Disabilità

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Elisa De Luca è una professionista della comunicazione che sta portando avanti la sua battaglia per una vita alla pari, combattendo con perseveranza le discriminazioni nel mondo del lavoro. Convive da sempre con una disabilità agli arti inferiori, che le crea difficoltà di deambulazione. 

«Nulla d'incompatibile con una vita, tutto sommato, normale - ci spiega - Ho raggiunto gli "anta", anche se me ne sento ancora 30. Mi definisco una tosta perché, avendone viste di ogni, ho avuto poca scelta: trovare dentro di me le risorse per reagire oppure soccombere. Sono una persona curiosa, che non si stanca mai d'imparare nuove cose e di rimettersi in discussione».

Qual è stato il tuo percorso di formazione?
«Ho una formazione umanistica incentrata su due cose che amo: la comunicazione (che, per me, rappresenta un ponte tra me e il resto del mondo) e le nuove tecnologie. Dopo la maturità classica e la laurea in Filosofia, ho conseguito un master in Media Relations e, in seguito, altri due, in Web Marketing e Social Media Management. Ho anche una passione spiccata per le lingue straniere: parlo fluentemente inglese e spagnolo e abbastanza bene il portoghese. Non escludo di studiarne altre in futuro».

Raccontaci le tue esperienze lavorative...
«Ho iniziato a lavorare (facendo traduzioni da/verso l'inglese, ripetizioni, etc.)  durante l'università. Il primo "lavoro vero" l'ho avuto dopo la laurea, come insegnante d'italiano e storia in vari istituti superiori. Dopo il primo master, ho cominciato a lavorare in una prestigiosa agenzia di comunicazione, curando le attività di ufficio stampa tradizionale e "digital" di varie aziende. In seguito, sono passata a lavorare nel marketing di una multinazionale del settore HR: nell'arco di quasi 9 anni, oltre a gestire e pianificare tutte le attività del dipartimento e il relativo budget, ho sviluppato la strategia e la presenza digitale dell'azienda, aprendone e curandone direttamente i profili social, nonché l'advertising. In seguito, ho fatto un'esperienza, sempre nel marketing digitale, all'interno di una start-up. Da aprile, lavoro in una prestigiosa media agency, dove mi occupo di pubblicità online per varie aziende. Ho trovato l'ambiente ideale per me, dove non ho solo la possibilità di fare un lavoro che amo, ma, soprattutto, collaboro con persone- dai capi ai colleghi ai clienti- che guardano alla mia personalità e professionalità, non alla disabilità. Parallelamente, porto avanti il mio progetto Move@bility». 

Move@ability, un blog creato proprio da te. Com’è nato questo progetto?
«Ho aperto circa due anni fa Move@bility, attraverso il quale cerco di parlare di accessibilità e di disabilità a 360° da un punto di vista diverso dalle solite oscillazioni tra pietismo e retorica del disabile super-eroe».

Disabilità e lavoro, un binomio complesso. Cosa ne pensi delle possibilità che vengono offerte a un professionista con disabilità?
«Questo obiettivo sarà effettivamente raggiunto solo se si riuscirà a fare un passo avanti sul piano culturale. Noi persone con disabilità per prime dovremmo pretendere di avere pari diritti e pari doveri, compatibilmente con le condizioni di ciascuno, rispetto a chiunque altro. L'assistenzialismo è la risposta adatta (con gli opportuni accorgimenti) per alcune categorie di persone, la cui condizione è particolarmente grave. Va scardinato il pregiudizio (ancora fin troppo radicato, nella società e, di riflesso, anche nelle aziende) che vede ancora troppo spesso, purtroppo, le persone con disabilità come poveretti da aiutare, ai quali elargire un'elemosina, indipendentemente dalle loro possibilità, conoscenze, competenze e aspirazioni. E ciò può essere fatto se noi per primi non ci accontentiamo di stare "un passo indietro". Naturalmente, è necessario essere obiettivi nell'analizzare la propria condizione, le competenze e le possibilità: anche se mi sarebbe piaciuto, è impossibile, per me, aspirare a fare l'astronauta. Ma ciò non significa che non possa aspirare a vedere riconosciuto il mio valore come persona e professionista, che ha maturato un bagaglio di competenze ed esperienze di tutto rispetto. E, da questo punto di vista, sulla base dell'esperienza mia e di tante persone che hanno condiviso con me la propria storia personale attraverso Move@bility, c'è ancora tanto da lavorare.Perciò insisto sull'aspetto del cambio di paradigma culturale: dobbiamo far sì che, quando ci guardano, gli "altri" (potenziali datori di lavoro e colleghi inclusi) vedano la persona, prima che la patologia». 

In quali occasioni ti sei sentita discriminata?
«La mia storia non è molto diversa, credo, da quella di tante altre persone con disabilità più o meno evidenti. La discriminazione non è sempre evidente, essendo spesso mascherata da occhio di riguardo per venire incontro alle mie esigenze o per non mettermi in difficoltà (senza chiedersi se determinate situazioni rappresenterebbero, per me, una difficoltà o un piacere). Le possibilità di carriera, per chi ha una disabilità cronica evidente come la mia, sono spesso il tasto dolente: a parità di risultati e competenze, ho dovuto faticare il doppio del tempo, per vedermi riconosciuti ruoli corrispondenti alle mie competenze e alle responsabilità che mi veniva richiesto di assumermi. Oltretutto, l'essere donna, insieme alla condizione di disabilità, ha rappresentato spesso un duplice motivo di discriminazione. Per mia fortuna, non ho mai subito episodi di discriminazione più grave, come demansionamenti o episodi di mobbing evidenti».

Cosa dovrebbe cambiare affinché si realizzi una vera inclusione? 
«Le leggi sono necessarie. Ma, da sole, non bastano: l'obbligo potrebbe, paradossalmente, ritorcersi contro le stesse persone con disabilità, che dovessero ritrovarsi ad essere assunte da aziende interessate unicamente ad evitare le sanzioni, anziché a valorizzarle e consentire loro di contribuire fattivamente alla crescita dell'azienda stessa. Serve un cambio di paradigma culturale, che permetta di focalizzarsi più sulle persone e su ciò che possono dare, in termini di competenze ed esperienze, e meno sulle limitazioni più o meno gravi che la condizione di disabilità porta con sé. Si tratta solo di trovare il lavoro più compatibile con le possibilità, le competenze e le aspirazioni di ciascuno: perché l'ambizione dovrebbe essere "peccato", per chi ha una disabilità, ma ha anche le competenze per ricoprire ruoli di responsabilità? Pensiamo a Stephen Hawking o, per restare in Italia, a Fulvio Frisone: due uomini con disabilità gravi ed evidenti, ma che a nessuno verrebbe in mente di associare al concetto di "incapacità", visto che sono tra gli scienziati più stimati a livello mondiale. Quanti altri Hawking e Frisone si nascondono in casa o nei centri diurni, perché non hanno avuto le stesse possibilità (e la stessa fortuna)? Giudico molto positivamente la sempre maggiore diffusione della figura del disability manager: mi auguro che siano sempre di più e che ciò contribuisca a mettere noi persone con disabilità nelle condizioni di partecipare pienamente alla vita sociale ed economica del Paese». 

 Sogni e progetti futuri?
«Nonostante i miei problemi di salute, ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha sempre valorizzata innanzitutto come persona. I miei genitori mi hanno riconosciuto sempre uguali diritti e doveri, rispetto ai miei fratelli, concedendomi fiducia e lasciandomi coltivare i miei sogni, anche quando questi mi hanno portato a decidere di lasciare la Sicilia, terra nella quale sono nata e mi sono laureata, per proseguire gli studi e, poi, restare a vivere da sola a Milano. Questo ha contribuito a non farmi mai sentire da meno, rispetto agli altri e, al tempo stesso, ha reso più difficile accettare di buon grado di "accontentarmi". Perciò, sogni e progetti, nonostante tutto, non mi mancano. Voglio far crescere ancora Move@bility, implementando una nuova sezione che, quando riuscirò a realizzarla, mi auguro possa contribuire concretamente a migliorare la quotidianità di molte persone con disabilità, che ancora oggi si trovano fin troppo spesso a fare i conti con barriere (architettoniche e non) di ogni tipo, che complicano la vita, quando non impediscono del tutto di fare cose anche importanti». 

A parità di risultati e competenze, ho dovuto faticare il doppio per vedermi riconosciuti ruoli corrispondenti alle mie competenze e alle responsabilità che mi venivano richieste. Oltretutto, l'essere donna, insieme alla condizione di disabilità, ha rappresentato spesso un duplice motivo di discriminazione.

(v.b.)

 

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