Staminali del liquido amniotico - intervista a Paolo De Coppi*

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Gruppo di lavoro coordinato da Paolo De Coppi Il gruppo di lavoro coordinato all'Università di Padova da Paolo de Coppi (secondo da destra)

Una ricerca dimostra che le cellule staminali del liquido amniotico potrebbero aprire la strada anche a future terapie per le malattie muscolari. Ne abbiamo parlato con Paolo De Coppi, coordinatore dello studio.

Lo avevamo intervistato in DM 174, a proposito della possibilità di rigenerare un muscolo lesionato tramite l’introduzione di cellule staminali programmate per ricostruirlo. Lui è Paolo De Coppi, chirurgo pediatra e ricercatore tra Londra e l’Università di Padova. All’epoca, la scoperta della sua équipe stava nell’utilizzo dell’acido ialuronico come “mezzo di trasporto” delle cellule staminali introdotte nel muscolo, poiché il loro semplice impianto, senza una struttura in grado di organizzarle, era precedentemente risultato inefficace. Ora lo ricontattiamo a proposito degli esiti di un’altra ricerca che si intreccia con la prima.
Tutto nasce, in sostanza, nel giugno del 2012, dalla sua pubblicazione, nella rivista scientifica «Stem Cells», della seguente notizia: «Le cellule staminali del liquido amniotico sono particolarmente adatte alla rigenerazione muscolare nei casi di patologie neuromuscolari».

Partiamo dunque cercando di chiarire la differenza tra la ricerca precedente e quest’ultima.
«La ricerca di cui avevamo parlato nel 2011 sfruttava cellule staminali del muscolo adulto di un donatore, chiamate “cellule satelliti”, che però sono difficili da coltivare, perché quando sono “fresche” - cioè appena prelevate - hanno un potere rigenerativo alto, mentre in provetta - dove vorremmo appunto coltivarle per moltiplicarle - pèrdono velocemente le loro potenzialità e quindi le loro possibilità terapeutiche sono limitate. L’autodonazione da un altro muscolo del proprio corpo è inoltre inutile quando c’è un muscolo distrofico, perché le cellule sono tutte identiche geneticamente e quindi malate, mentre l’eterodonazione di cellule satelliti richiede la raccolta di una quantità di cellule impegnativa da raggiungere, praticamente svariati milioni. Giulio Cossu, uno dei pionieri di questo tipo di ricerca, ora è all’opera nella fase clinica di un esperimento che ricorre alle cellule staminali localizzate attorno ai vasi sanguigni e che si pensa possano formare un muscolo».

Ma la nuova ricerca della sua équipe padovana su che cosa sta esattamente lavorando?
«Su una fonte diversa per il prelievo delle cellule staminali: il liquido amniotico. Abbiamo scoperto, infatti, che in tale contesto esse non perdono il loro potere rigenerativo. Durante la vita fetale, infatti, le cellule sono molto più “immature” di quelle satelliti e siccome il loro scopo è formare appunto il corpo del feto, il loro potere generativo è molto più alto di quello di una cellula staminale adulta di un corpo già formato».

Se questa soluzione sta risultando tanto più efficace della precedente, avete bloccato l’altra ricerca?
«No. L’aspetto positivo delle cellule satellite è che trovandosi nel muscolo, sono già programmate per diventare tali. Per far diventare muscolo quelle del liquido amniotico occorre invece avviare un processo più complesso e non ancora del tutto chiarito. La soluzione con le cellule muscolari è vincente, se si tratta di ricostruire un muscolo danneggiato, ma sano, mentre quella di utilizzare le amniotiche potrebbe essere una buona scelta di fronte a una malattia genetica in cui le cellule muscolari siano malate».

Come farete per moltiplicare le cellule satellite?
«Il medico giapponese Shinya Yamanaka, Premio Nobel del 2012, ha scoperto come far tornare embrionale - e quindi pluripotente - una cellula adulta già definita. Questa tecnologia potrebbe essere applicata anche alle cellule satelliti, per “ringiovanirle” ed espanderle. Tale riprogrammazione - questo il termine scientifico che descrive il riportare le cellule adulte a uno stato primordiale - richiede l’inserimento nella cellula di materiale genetico che la “indirizzi” verso una cellula primordiale».

Ma cosa si intende per “materiale genetico”?
«Significa che per far tornare una cellula al suo stato embrionale si ricorre a un virus o a un vettore che porta un gene con questo tipo di ordine alla cellula stessa. È però possibile che non sia necessario, se si utilizza una cellula più primordiale come quella amniotica. Abbiamo recentemente dimostrato, infatti - in uno studio cui è stata dedicata la copertina della rivista scientifica “Molecular Therapy” -, che le cellule amniotiche possono essere riprogrammate come cellule simil-embrionali, semplicemente utilizzando dei segnali chimici».

Quando è iniziata la ricerca sul liquido amniotico?
«Nel 2007. All’epoca avevamo conquistato la copertina di un’altra prestigiosa rivista, “Nature Biotechnology”, perché per primi avevamo scoperto la presenza nel liquido amniotico di cellule staminali».

Chi compone il gruppo di lavoro?
«A Padova lavoro con Michela Pozzobon, Martina Piccoli e alcuni giovani entusiasti ricercatori che, a dispetto della cronica mancanza di fondi e di strutture, dedicano tempo ed energie affinché gli esiti delle nostre ricerche arrivino presto alle persone malate cui sono destinati. Il nostro gruppo si interfaccia con quello guidato dalla pediatra Marina Cavazzana Calvo, che lavora all’Ospedale Necker di Parigi».

Chi finanzia la ricerca?
«Il laboratorio in Italia è finanziato principalmente dalle Fondazioni Città della Speranza e Cariparo. Ma ora che questa fase è terminata, con la dimostrazione che le cellule staminali prelevate dal liquido amniotico si integrano a quelle di un muscolo malato, sostituendo le cellule malate e allungando la sopravvivenza del muscolo stesso, dalla sperimentazione sui topi vogliamo passare a quella sui cani affetti da distrofia, e stiamo cercando nuovi fondi per procedere».

Non è possibile evitare di coinvolgere gli animali?
«Cerchiamo di limitarne l’utilizzo al minimo. Ma al momento - quando si lavora con le cellule staminali e la rigenerazione tessutale - è troppo pericoloso agire direttamente sull’uomo e non ci sono simulazioni in provetta che permettano di eliminare completamente l’utilizzo animale. Stiamo anche noi lavorando in modo da ridurre questi esperimenti, ricreando in provetta situazioni sempre più simili all’uomo e speriamo che in futuro si possa eliminare la ricerca negli animali da esperimento».

È possibile formulare un’ipotesi plausibile su quanto tempo ci vorrà prima di arrivare all’uomo?
«Potrei dire cinque anni, ma in realtà la risposta dipende anche da quanto tempo ci metteremo a reperire i fondi, da quanti ne reperiremo effettivamente e da quante persone saranno al lavoro contemporaneamente in questa fase del progetto».
(Barbara Pianca)

*Chirurgo pediatra, impegnato tra Londra e Padova.

Per ulteriori dettagli o approfondimenti:

Coordinamento della Commissione Medico-Scientifica UILDM (referente: Crizia Narduzzo), c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.

Data dell’ultimo aggiornamento: 15 novembre 2014.

Ritratto di admin

Margaret

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