Quelli che... giocano a wheelchair hockey

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Lignano Sabbiadoro, Italia-Germania, 4 novembre 2010 Una bella azione di gioco, ai Mondiali di wheelchair hockey di Lignano Sabbiadoro del 2010 (foto di Mirco Albrigo)

di Claudio Arrigoni*

Ci sono Mattia, che a Monza è avvocato da non molto e ha le ossa di cristallo per l’osteogenesi, e Sonia, che era a Genova e ora è nei pressi di Milano perché fra poco si sposa, e Giuseppe, che sta in Sicilia e ha lottato per avere un’auto da guidare con un joystick in modo che possa farlo anche lui che si muove meno degli altri, e Andrea, che a Genova studia e va in carrozzina come fosse una moto, e Luca, che gestisce un B&B a Como e lo ha fatto proprio per tutti, e si potrebbe continuare a lungo perché la lista di quelli che giocano a wheelchair hockey, l’hockey su carrozzina elettrica, non è mica corta. Non c’è Stefano, che a Padova era pronto per giocarsi la Coppa Italia lo scorso settembre e le complicanze che porta la distrofia muscolare gli hanno detto di no e lo hanno portato via troppo presto da chi amava e quella gara si è giocata con lacrime per lui. Perché anche questo è il wheelchair hockey, ogni anno c’è qualcuno che manca all’appello e questo accade anche se non è mai giusto.

La distrofia muscolare è degenerativa, a volte si blocca, a volte no. In Campionato c’è qualcuno che gioca usando la mazza, un altro che invece non ce la fa più a tenerla in mano e si trovano altri accorgimenti e così può giocare lo stesso. «Il 90 per cento dei nostri atleti sono distrofici o hanno patologie neuromuscolari. Ci sono stati anni in cui durante la stagione ci lasciavano anche tre o quattro atleti»: Antonio Spinelli è stato rieletto lo scorso anno presidente della Federazione Italiana Wheelchair Hockey (FIWH), è uno che sa trasmettere la passione, ha lottato gli anni scorsi perché questo fosse uno sport che rimanesse per tutti. E grazie all’Italia questo succede e non si sono persi i valori dello sport paralimpico (anche se il wheelchair hockey ancora non fa parte del programma della Paralimpiade e chissà se mai ci entrerà) in funzione della vittoria.

Ne abbiamo parlato su InVisibili, in occasione della Giornata Nazionale per la lotta alla distrofia muscolare che la UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) dedicò allo sport, Liberi di essere campioni. Per spiegarlo in breve, lo ripetiamo qui. E’ uno sport straordinario: divertente da vedere e da giocare, utile perché permette di fare sport a persone con disabilità che altrimenti difficilmente potrebbero, appassionante e spettacolare. Ci giocano appunto in particolare, ma non solo, atleti con distrofia muscolare e patologie neuromuscolari. Ha le regole dell’hockey, si utilizzano carrozzine elettriche. Quelle per le gare internazionali possono arrivare a costare anche 11 mila euro e, per porre un limite, non si possono superare i15 km/h. Chi non riesce a usare una mazza ha un attrezzo a croce, chiamato stick, fissato ai bordi della carrozzina, che permette di colpire la palla. Ecco come diventa davvero per tutti. E’ nato negli anni Settanta, insieme agli Abba e ai computer Nokia, nei Paesi scandinavi quale disciplina scolastica per favorire l’attività fisica di persone con gravi disabilità. In Italia ci sono 31 società con 29 squadre in Campionato e 330 atleti con quasi 200 fra dirigenti e volontari. Il Campionato si concluderà ad aprile, a maggio ci sarà la Supercoppa fra Thunder Roma, primi in Campionato, e Coco Loco Padova, vincitori della Coppa Italia. Per chi fosse a Milano, domenica c’è il derby fra Dream Team e Sharks Monza (informazioni sul sito federale).

Prima dei Mondiali che si sono disputati a Lignano Sabbiadoro, nel 2010, a livello internazionale non vi erano limiti in campo a utilizzare atleti con ogni tipo di disabilità: ecco allora che si potevano trovare anche paraplegici o addirittura amputati. Persone che, fra l’altro, normalmente non usano una carrozzina elettrica per muoversi. Una tendenza che veniva stranamente dai luoghi in cui questo sport era nato, in nord Europa. Lì, per ragioni che ora qui non approfondiamo (ma abbiamo trattato su InVisibili), cominciavano a mancare atleti con patologie più gravi e quindi non si ponevano limiti. Con il risultato che gli atleti che avevano disabilità maggiore venivano penalizzati. L’idea italiana era quella più giusta: ogni squadra può entrare in campo con una soglia di punti (ora sono 10) e ogni atleta ha un punteggio legato alle proprie possibilità e disabilità (da 1 – 0,5 in Italia-, come per chi non può utilizzare la mazza e usa lo stick o ha un’ostegenesi imperfetta grave, a 5, per esempio una persona paraplegica) e in campo devono esserci, su 5 giocatori, almeno due che utilizzano lo stick. Il sistema dei punteggi è uno dei cardini dello sport paralimpico, vige anche in basket e rugby in carrozzina, per esempio. Con qualche aggiustamento e molta fatica, finalmente questo regolamento è passato anche in Europa. In gioco c’erano anche i valori: lo sport è per tutti, anche per i più deboli. E’ il messaggio più bello che il wheelchair hockey lancia. Per questo vale la pena sostenerlo e andarlo a vedere. Non solo: è proprio divertente. Chi andrà in palestra non se ne pentirà.

*Questo testo, qui pubblicato con lievi adattamenti, è presente con il titolo L’hockey su una carrozzina: l’Italia guida nello sport (davvero) per tutti anche in “InVisibili”, il blog di “Corriere della Sera.it” curato appunto da Claudio Arrigoni, con Franco Bomprezzi e Luca Fanti.

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Margaret

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