Sara E Alberto: Due Cuori In Sinergia

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Continua la rubrica sui Siblings, i fratelli e sorelle che vivono la realtà della disabilità. Questa è la storia di Sara e Alberto Lavarini, due fratelli della provincia di Verona.

Sara ha 23 anni e lavora nel sociale, Alberto, socio di UILDM Verona, ha 26 anni e ha la distrofia di Duchenne. Il loro rapporto è caratterizzato da una straordinaria sintonia. La malattia di Alberto si manifestò quando aveva quattro anni. «Ma fu evidente solo per i medici. Per me era un bambino come gli altri perché il mio  primo sguardo al mondo l'ho dato a lui. Lui è stato la mia normalità – spiega Sara - Alberto è un'onda energetica, perché in sua presenza è inevitabile provare il bene, un bene tanto grande che non ho mai sperimentato con altre persone alla stessa intensità».

 

Come descriveresti Alberto a chi non lo conosce?

«Alberto è creativo, riflessivo, dolce. Possiede una sensibilità spiccata ed ha un modo di lodare delicato e premuroso. Quando deve esternare complimenti è timido, ma sa cogliere il bello che ognuno possiede. È profondo e coraggioso. Mi viene naturale concentrarmi su ciò che di bello possiede. Alberto è malato, è innegabile. Ma Alberto non è la sua malattia, è perfettamente sano nella testa e nel cuore. E voglio che lui ne sia consapevole, per questo insisto nel restituirgli quella gioia costante che lui dona a me. Alberto ha due grandissimi occhi verdi che comunicano tutto quello che a volte non riesce a dire. Sa tirare fuori il mio lato giocoso, quell’aspetto vivace e ridicolo che la società non prevede se vuoi apparire una persona matura».

 

Il suo difetto più grande?

«L'unico difetto che credo possegga è quello di sentirsi sempre responsabile della sua malattia. Responsabile se qualcuno è arrabbiato, o triste, quando lui non c’entra nulla. Responsabile per la sofferenza che vi è nel mondo. Responsabile di quello che non può ma vorrebbe fare per mettersi al servizio degli altri. Responsabile di non essere abbastanza. Ecco, io credo che Alberto non si senta abbastanza».

 

Come hai vissuto la malattia di Alberto?

«A sette anni Alberto non fu più in grado di camminare, ma questo non mi sorprese. Come non mi sorprendeva doverlo aiutare a portare la forchetta alla bocca, nonostante fosse più grande di me. Ricordo in modo nitido: nella pausa in cui io mangiavo e lui attendeva il suo turno, che giocava con il cibo, imitando scene di combattimento nel suo piatto, producendo suoni come stesse recitando. E recitava davvero, a pensarci bene. Era il suo modo di giocare, non potendo farlo in modo diverso. E io lo imitavo, ridendo. Non mi sorprendeva dover spingere la sua sedia a rotelle, mentre fingevamo di essere due piloti in gara. Non mi sorprendeva nemmeno andare da lui ogni qualvolta avesse bisogno di qualcosa... insomma, chi si sorprenderebbe nell'aiutare una persona che chiede aiuto? A maggior ragione se le si vuole un bene immenso». 

 

?Come avete trascorso la vostra infanzia

«La nostra infanzia proseguì senza che le sue caratteristiche mi condizionassero negativamente. Nonostante ciò, scoprii a distanza di tempo che Alberto, parlando con mia nonna, le chiedeva perché lui non potesse camminare come gli altri bambini. Lei gli rispondeva che era fortunato a poter correre con la sua sedia a rotelle, andava così veloce da riuscire a superare tutti!  Crescendo le sue domande presero sempre più spessore "nonna, sto morendo?" le ripeteva. "Non sto morendo io che sono vecchia, perché dovresti morire  tu che sei giovane?" rispondeva sempre lei». 

 

Cosa accadde poi?

«L'adolescenza è un momento di consapevolezza. Era il 2010. Eravamo a pranzo, quando ad un tratto Alberto smise di respirare. Si spaventò molto. Di punto in bianco non riusciva più a deglutire. I miei genitori lo portarono d'urgenza in ospedale. Rimase qualche settimana. Alberto si ritrovò su un filo tra la vita e la morte, ed io non capivo cosa stesse succedendo. Nessuno mi spiegò nulla. Come si fa a rimanere tranquilli quando la persona a cui più si è legati sta male? Andai a trovarlo in ospedale una volta soltanto. Lo trovai circondato da tubi. Disteso, in quella stanza cupa che nulla aveva a che fare con la sua solarità. Non sopportavo la vista di Alberto in quello stato e non sopportavo non sapere. Tornata a casa chiesi a mio papà cosa avesse Alberto: "distrofia muscolare di Duchenne " mi rispose, porgendomi un quaderno con tutte le sue analisi, da quando era nato fino a quel momento. Fu lì che tutte le domande ricevute nel tempo presero un senso. Quando capii che era una patologia degenerativa e che le prospettive di vita erano molto brevi, entrai in un momento cupo della mia vita. Alberto si salvò da quell’episodio e iniziai a guardarlo con occhi diversi». 

 

E adesso come descriveresti il vostro rapporto?

«Sicuramente è mutato nel tempo, ma non è cambiato il bene che ci vogliamo. In seguito agli impegni e al lavoro, dedicare tempo ad Alberto è divenuto sempre più impegnativo nonostante rimanga la mia priorità. Per questo motivo ho realizzato per lui un quaderno, intitolato "Tu sei cuore, io sono corpo, questo libro sono ali per volare in un bel posto". In queste pagine ho inserito tutte le attività che gli piacciono e possiamo condividere, in modo da passare al meglio ogni istante, perché nessun giorno venga sprecato. Ogni volta scegliamo un punto e lo realizziamo, come ad esempio cucinare. Adoriamo questo momento perché è solo nostro. Prima di proporgli questa attività temevo che avrebbe potuto turbarlo. Vedere del cibo e non poterlo mangiare non deve essere facile, pensavo. Ma per lui è più importante la presenza, il condividere assieme, rispetto al risultato finale».

 

Avete mai qualche discussione?

«Alberto è convinto che guarirà, che Dio lo abbia messo alla prova fino ad ora, ma che il momento della guarigione è vicino. Ci siamo scontrati a lungo su questo. Un giorno mi chiese di scrivere una lettera al Papa, nella certezza che lo avrebbe guarito. E io tremavo all'idea che non fosse così. Lui dettava e io immortalavo su carta. Gliela inviammo e dopo qualche mese partimmo per Roma. Tanto ero entusiasta, tanto ho sperato nella forza di Alby, perché l'idea che la sua forza interiore crollasse mi spaventava. Invece andò bene: il Papa rimase a lungo vicino ad Alberto, lo accarezzò e a lui sembrò di toccare il paradiso per un istante. La gioia provata fu tanta che sembrò bastargli».

 

Cosa significa essere la sorella di Alberto?

«Alberto mi ha resa migliore e continua a farlo. Tira fuori le mie potenzialità, allena la mia empatia, il mio sguardo verso il mondo, mi pone nella situazione di interrogarmi, continuamente e su tutto. Credo abbia questo effetto con tutti i componenti della mia famiglia. Di fronte a tutte le sfide della vita che ci portano a separarci, Alberto è un'ancora. Lo vedo davvero come un tassello che unisce noi, tutti gli altri pezzi. È centrale. È fondamentale. È speciale». 

(v. b.)

Ritratto di uildmcomunicazione

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