Educare alla morte, educare alla fragilità

share on:

È uscito su Behavioral Sciences l’articolo “Imagine you have ALS”: Death Education to prepare for Advance Treatment Directives, basato su uno studio realizzato all’interno del master “Death studies & the end of life” dell’Università di Padova diretto dalla prof. Ines Testoni, che ha coinvolto a 104 persone di età differenti e di diverso pensiero religioso. A loro è stato chiesto di mettersi nei panni di una persona a cui viene diagnosticata una malattia degenerativa come la SLA. I partecipanti hanno discusso sulle questioni relative alla consapevolezza di dover morire, le cure palliative, le DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) e le scelte che avrebbero compiuto dopo aver ricevuto tale diagnosi.

Questo studio ci offre l’occasione per affrontare un tema complesso, ma quanto mai attuale: quello della morte e delle scelte complesse che riguardano la nostra salute. Se ci trovassimo noi in quella situazione, come ci comporteremmo? Ne parliamo con Gabriella Rossi, una delle autrici dell’articolo, psicologa che ha lavorato all’Unità spinale dell’Ospedale Niguarda e al Centro Clinico NeMO di Milano. Gabriella è presidente della Sezione UILDM di Monza.

 

Nella nostra società basata sulla performance, sullo stare bene a tutti i costi che percezione si ha della morte? Che ruolo ha la fragilità nel nostro modo di vivere?

C’è una difficoltà nell’accettare la morte come naturale proseguimento della vita, anche perché come già rifletteva Epicuro “La morte, in quanto mia, è un’esperienza impensabile. Quando ci sono io non c’è la morte, quando c’è la morte non ci sono io”. Dunque, la morte in sé non è rappresentabile, perché la persona “vivente” la rimuove in quanto estranea e perché non le appartiene. Quando la fine della vita è annunciata, attesa, ha sembianze di “plausibilità”, in alcuni casi persino pensata come necessaria. Così come, quando la morte taglia la vita in corso, fluente e risplendente, allora sembra assurda proprio perché inattesa.
Ma al di là di come emotivamente sperimentiamo una sostanziale differenza del nostro porci di fronte alla morte, quello che dovremo imparare è che non siamo né onnipotenti, né invincibili e che la fragilità è un elemento costitutivo della nostra vita.

 

La nostra fragilità quindi è qualcosa di naturale, non da combattere ma piuttosto da accogliere, da curare. A questo proposito mi viene in mente la famosa frase stampata sulle scatole che contengono oggetti fragili “Fragile. Maneggiare con cura”. Che valore ha quindi la possibilità di esprimere la propria volontà attraverso le DAT?

Le Disposizioni Anticipate di Trattamento non sono - e non dovrebbero essere - solo uno strumento burocratico, uno stampato da riempire con qualche crocetta. Credo sia importante avere cura di accompagnare le persone a capire qual è il loro pensare sulla vita, che portata ha nel loro quotidiano il concetto di dignità e di benessere esistenziale. Il nostro impegno è quello di costruire un senso culturale sull’idea di morte e il diritto alla cura. In questo senso può aiutare chiedersi e, forse, trovare risposta alle domande: “Che significa accanimento? Quale limite, quali decisioni condividi riguardo alla tua salute e qual è il tuo pensiero di cura? Dove metteresti la bandierina?”.

 

Quanto più questo percorso conta nel caso di malattie irreversibili o degenerative?

Ritengo sia importante che nei Centri che prendono in carico le malattie neuromuscolari ci sia massima attenzione a questo processo e che lo stesso sia non solo una buona prassi, ma rientri nei “protocolli” di cura condivisi dal team. Abbiamo uno strumento molto importante da utilizzare: si tratta del piano condiviso di cura nel quale potranno essere indicate anche le disposizioni e le volontà dei pazienti e con chi condividerle nel momento in cui essi non potranno o non saranno più in grado di decidere autonomamente.

 

Quali sono i motivi che spingono una persona a vivere?

Si tratta di elementi strettamente soggettivi. La sacralità della vita, il valore che le diamo non dipende da una confessione religiosa ma un pensiero molto personale. Tanto per citarne alcuni, l’attaccamento alla bellezza e il sentirsi cellula di qualcosa di più grande. Per questo la costruzione delle disposizioni di trattamento e del piano condiviso di cura è un accompagnamento, un percorso personale che può essere fatto con l’aiuto di uno psicoterapeuta che sappia portare la persona a un grado di consapevolezza tale da definire quali sono i limiti da non superare, dove collocare le bandierine così da definire il confine tra vita dignitosa e “non vita”.
Dall’esperienza accumulata in questi anni di lavoro in UILDM e al Centro Clinico NeMO sono sempre più convinta dell’importanza e la necessità che tali riflessioni - soprattutto se riguardano la vita di persone con malattie inguaribili la cui diagnosi è vissuta come una “morte annunciata” - siano condotte in una relazione d’aiuto strutturata da professionisti seri così che “il terapeuta” possa non solo accompagnare l’elaborazione di tali idee ma possa anche favorire il dialogo su questi temi anche con i familiari. È difficile affrontare queste tematiche all’interno delle relazioni affettive/familiari: proteggere chi si ama dal dolore è un’indole che ci appartiene e i dialoghi emotivamente  così coinvolgenti vengono bene solo nei film. La famiglia spesso non vuole lasciare andare la persona per il troppo amore e la persona stessa non vuole fare del male ai familiari con scelte difficili da accettare.

 

Quali sono gli strumenti che abbiamo a disposizione per educare alla morte?

Credo che il periodo che stiamo vivendo, nonostante la sua drammaticità, ci aiuti perché ci ha permesso di rimettere in luce la nostra fragilità che, lo dicevamo prima, è una dimensione fondante della nostra vita. Non ho strumenti concreti da proporre: certamente la cultura, la scuola, l’educazione al rispetto, la curiosità che porta al confronto e alla conoscenza, le relazioni con gli altri e l’attenzione verso se stessi contribuiscono a farci fare un percorso in questo senso.
Aggiungerei anche l’opportunità di vivere il carpe diem, il cogliere l’attimo. È proprio il carpe diem che dà valore alla vita. Una vita per quanto piccola, per quanto breve, ha valore in sé, non per la quantità ma nella qualità del tempo speso, delle relazioni intrecciate.
Del resto, chi piange per la morte dell’altro piange davvero l’altro, non lo potrà mai dimenticare; cesserà il dolore vivo, ma resterà la nostalgia e piangere per l’altro significa non rassegnarsi alla sparizione della sua unicità.

 

Che compito ha la famiglia in questo percorso?

Il suo compito sta nel creare una relazione di fiducia, nel dire “io ci sono”, “possiamo affrontare la strada insieme”. È un un compito di rassicurazione sul rispetto delle volontà espresse così che le scelte soggettive indicate e il pensiero di cura della persona malata siano – anche se non comprese o condivise – considerate un “gesto d’amore” da perseguire.

(ap)

Ritratto di uildmcomunicazione

uildmcomunicazione