All’attacco della stessa molecola - intervista a Claudia Colussi*

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Claudia Colussi ha coordinato una ricerca – presso il Centro Cardiologico Monzino di Milano – centrata sull’idea di due farmaci distinti mirati a colpire lo stesso bersaglio all’interno della cellula muscolare.

In che cosa consiste tale ricerca – le chiediamo – qual è la storia di essa, gli obiettivi e i risultai raggiunti?
«L’idea di partenza di questo studio è nata dall’osservazione che sia una classe di farmaci chiamati inibitori delle deacetilasi, sia la somministrazione di ossido nitrico si sono dimostrati efficaci nel miglioramento della distrofia muscolare nel modello animale costituito dai cosiddetti “topi mdx”. In un nostro precedente lavoro, infatti, avevamo dimostrato che gli inibitori delle deacetilasi contribuivano notevolmente al rallentamento della progressione della malattia, diminuendo le fibrosi e l’infiltrato infiammatorio e promuovendo il differenziamento muscolare. Tuttavia, la “molecola bersaglio” di questi farmaci non era stata ancora identificata.
Nel nuovo studio siamo invece riusciti a identificare l’istone deacetilasi 2, alias HDAC2 – componente di una famiglia che conta almeno undici diverse molecole – come il bersaglio principale di questi farmaci. Inoltre, nel corso dello stesso studio, abbiamo scoperto che l’ossido nitrico – la cui produzione è carente nel muscolo affetto da distrofia di Duchenne – agisce anch’esso almeno in parte sull’HDAC2. In particolare, somministrando ossido nitrico si riesce ad inibire l’HDAC2, ottenendo un effetto simile a quello degli inibitori delle deacetilasi. Quindi le due categorie di composti, sebbene con meccanismi diversi, sembrano agire sulla stessa molecola – l’HDAC2, appunto – inibendola e l’inibizione dell’HDAC2 è fondamentale per la regolazione della trascrizione di geni implicati nella crescita e nell’omeostasi delle cellule muscolari scheletriche e quindi nel promuovere il differenziamento [l’omeostasi è la capacità dell’organismo di conservare una stabilità al suo interno, data da alcuni processi regolativi e controregolativi che si attivano a ogni variazione delle condizioni esterne, N.d.R.].
Diversamente da altri tipi di terapie – come quella cellulare o genica – le terapie farmacologiche da noi sperimentate agiscono a valle del difetto genetico responsabile della malattia, ovvero non correggendo l’assenza o l’alterazione della distrofina e tuttavia dimostrandosi in grado di bloccare o quantomeno di rallentare l’evoluzione della malattia. In particolare, gli inibitori delle deacetilasi agiscono favorendo il tentativo di riparazione spontanea messo in atto dagli stessi muscoli distrofici, mentre l’ossido nitrico ripristina nei muscoli distrofici alcuni segnali interrotti proprio dall’assenza della distrofina. Il recupero di questi segnali determina effetti benefici sovrapponibili a quelli degli inibitori delle deacetilasi.
I nostri studi sono ora finalizzati da una parte allo sviluppo di nuove molecole, forse ibride, risultato della fusione fra donatori di ossido nitrico e inibitori delle deacetilasi, con l’obiettivo di ottenere azioni terapeutiche di maggiore efficacia e durata nel tempo; dall’altra parte ad approfondire il meccanismo dell’effetto benefico degli inibitori delle deacetilasi e dell’ossido nitrico questa volta nell’ambito della cardiomiopatia distrofica. Infatti, com’è ben noto, un problema sempre più emergente per i pazienti, che si aggiunge drammaticamente alla degenerazione del muscolo scheletrico, è proprio quello delle alterazioni a carico del cuore».

Sempre alla luce di questo studio, quali possono essere i tempi previsti per arrivare alla sperimentazione sull’uomo e quindi le prospettive future per i pazienti con distrofia di Duchenne?
«I risultati ottenuti sul topo mdx sono molto incoraggianti, ma bisogna certamente tenere in considerazione diversi aspetti. Innanzitutto il modello murino non rispecchia perfettamente la malattia umana, che è più severa, e quindi sono necessari ulteriori studi per verificare l’efficacia dei farmaci anche sull’uomo. Per arrivare a queste sperimentazioni, tuttavia, occorre prima determinare gli effetti dei nuovi farmaci in modelli animali più adeguati che sviluppano una sintomatologia simile a quella dell’uomo, come ad esempio il cane, studi, questi, che sono purtroppo estremamente costosi e di non facile esecuzione.
In pratica, senza il coinvolgimento di industrie, è molto difficile che un laboratorio accademico o anche un consorzio di laboratori abbia le risorse necessarie per farli. Per studi clinici sull’uomo, poi, occorrono almeno cinque anni per arrivare – dopo diverse fasi di analisi e valutazione – alla definizione degli effetti eventualmente benèfici di nuovi farmaci e allo sviluppo di una terapia. Considerando l’attuale carenza di fondi, non siamo in grado al momento di stabilire una data, neanche in senso prospettico, in cui questi composti potranno essere applicati clinicamente all’uomo. I nostri sforzi, tuttavia, continuano e continueranno, almeno per quello che è a noi possibile fare nella direzione della maggiore conoscenza dei meccanismi e della proposta di nuove eventuali soluzioni terapeutiche per questa terribile malattia».

Lo studio è cofinanziato e sostenuto da varie realtà europee. Per quale motivo?
«Studi come il nostro e quelli di altri gruppi attivi in questo settore richiedono molte risorse, intellettuali ed economiche, che difficilmente giungono in modo sufficiente da un’unica sorgente. In Italia, come anche in altri Paesi, i finanziamenti disponibili per questi studi sono limitati e le cifre ottenute riescono, nella maggior parte dei casi, a coprire a stento le spese vive necessarie per gli esperimenti.
In pratica, spesso si verifica che un ente finanziatore metta a disposizione fondi per il personale, mentre altri intervengono a coprire i costi generali e il reagentario. Per questo motivo si usano dei cofinanziamenti provenienti da vari enti, italiani come il Telethon e Parent Project Onlus, e stranieri come l’AFM o l’MDA, le associazioni francese e americana che si occupano di distrofie muscolari».

I centri che hanno collaborato sono solo italiani o avete avuto relazioni anche con altre strutture in Europa o nel mondo?
«Lo studio, completamente italiano, è stato condotto presso l’Istituto Cardiologico Monzino di Milano, ma è frutto di un’estesa collaborazione tra il laboratorio diretto da Pier Lorenzo Puri, ricercatore dell’Istituto Telethon Dulbecco, e il gruppo di ricerca coordinato da Carlo Gaetano del Laboratorio di Patologia Vascolare diretto da Maurizio C. Capogrossi, presso l’Istituto Dermopatico dell’Immacolata di Roma. E tuttavia nel network che ha partecipato alla ricerca sono presenti anche studiosi dell’Istituto di Ricerche di Biologia Molecolare “P. Angeletti” di Pomezia (Roma), appartenente alla multinazionale Merck, che per un certo periodo si sono interessati alla nostra applicazione non-oncologica degli inibitori delle deacetilasi».

Ci sono altri centri che stanno studiando questi argomenti, seguendo un percorso proprio?
«Per quanto ci è dato sapere non ci sono al momento altri laboratori, accademici o industriali, a parte quelli con cui già collaboriamo, che siano coinvolti nello sviluppo di strategie farmacologiche simili alla nostra da proporre per la terapia della distrofia muscolare».

*IRCCS Centro Cardiologico Monzino di Milano.

Intervista concessa alla Redazione di DM nell’aprile del 2009.

Per ulteriori dettagli o approfondimenti:
Coordinamento Commissione Medico-Scientifica UILDM (Crizia Narduzzo), c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.

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Margaret

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