I lividi nell’anima

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Ma lo sai alla fine che l'amore
Se lo tieni chiuso a chiave guarda altrove
Come se accontentarmi fosse la scelta migliore
Come fosse troppo tardi sempre per definizione
Come se l'unica soluzione fosse quella di restare

Fiorella Mannoia - Nessuna conseguenza

 

Occorre restare in silenzio, per ascoltare le storie delle donne che hanno subìto violenza, un silenzio carico di rispetto e assenza di giudizio.

I dati dell’ultima ricerca della FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap) all’interno del progetto VERA (acronimo per Violence Emergence, Recognition and Awareness) in collaborazione con Differenza Donna, mostrano una realtà in cui ciò che viene raccontato, verbalizzato o scritto attraverso i questionari anonimi è solo la punta dell’iceberg di un fenomeno troppo spesso misconosciuto e inascoltato. Emerge chiaramente la difficoltà a riconoscere i comportamenti violenti, che a causa della educazione ricevuta come donne ad essere pazienti, forse anche remissive e della situazione di dipendenza dovuta alla disabilità vengono spesso minimizzati o interiorizzati come inevitabili, o come prezzo da pagare per essere amate e accudite.

Il fatto che dai dati emerga che la percentuale più alta delle violenze subite dalle donne con disabilità sia quella psicologica (il 54%) e che nella maggioranza dei casi provenga da persone note alla vittima (80%) come partner, familiari, conoscenti o operatrici ci ha spinto a confrontarci sul tema, parlandone tra noi del Coordinamento del Gruppo Donne. Sono venute fuori riflessioni e storie delle quali ciascuna di noi è stata testimone o protagonista, storie di violenza psicologica e manipolazione, ferite mai rimarginate di fronte alle quali le vittime il più delle volte si arrendono caricandosi il peso silenzioso della sofferenza.

Noi crediamo invece, coerentemente con il lavoro di divulgazione che portiamo avanti da vent’anni, che sia necessario parlare e raccontare, creare situazioni di sostegno e supporto psicologico per le donne vittime di ogni tipo di violenza. Per questo, in occasione della Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza sulle donne, abbiamo raccolto alcune testimonianze che confermano nella quotidianità i dati dell’indagine Fish e la necessità di ascoltare ciò che tante donne hanno da dire.

 

TESTIMONIANZE

 

Marta

Lo ricordo ancora come fosse ieri, durante un corso di auto-aiuto organizzato molti anni fa durante i lavori assembleari dal Gruppo Donne UILDM. Eravamo tutte in cerchio, donne con disabilità e non, tutte desiderose di raccontarci le nostre esperienze in un momento di crescita condivisa. Ricordo quando Marta (un nome di fantasia) ha iniziato a parlare, raccontandoci della sua vita in un paese del sud, della sua famiglia all'antica, di come la sua disabilità fosse stata accolta con senso pratico e organizzazione. Era una donna carismatica, piena di interessi e impegni, una donna solare. Ma poi ha iniziato a raccontarci di un episodio che le ha lasciato una ferita indelebile dentro, uno squarcio. Un pomeriggio lei e le sue molte sorelle erano nella stanza della mamma, tutte adolescenti e adulte e mentre la madre sistemava gli armadi faceva vedere a ciascuna di loro i pezzi del corredo che custodiva gelosamente e che avrebbe lasciato loro in dono una volta sposate. Con uno sguardo secco, arrivata al turno di Marta aveva esclamato "no, a te non lo sto facendo il corredo, tanto non ne avrai bisogno". Una ferita profonda, un abisso di invisibilità nel suo essere donna agli occhi della madre, la convinzione decisa che nessun uomo l'avrebbe scelta. Ricordo ancora oggi la sua voce rotta dall'emozione mentre condivideva quel dolore con noi, un dolore che aveva minato per sempre il suo rapporto con gli uomini e la sua sicurezza come donna. La sua disabilità, la carrozzina sulla quale si muoveva erano limiti invalicabili all'amore perché così le erano stati trasmessi. Non c'è violenza più grande dell'essere private della propria identità e dei propri desideri, tanto più se a farlo è la stessa figura materna che di quella identità dovrebbe essere garante.

(Francesca Arcadu)

 

Antonella

Quando il Gruppo Donne ha chiesto di pensare alla giornata sulla violenza alle donne, mi sono chiesta quante e quali siano le forme di violenza. Certamente quelle fisiche provocano dolore, sono facilmente dimostrabili e difficili da nascondere o confondere, ma quelle psicologiche decisamente no! Le ferite che producono sono molto più profonde di quelle sulla pelle, non colpiscono solo il tuo fisico, ma il tuo essere più intimo e minano in maniera indelebile la tua persona e la tua vita. Dico questo mentre ripercorrono con la mente il ricordo di Antonella (nome di fantasia per rispetto nei suoi confronti), una ragazza che non c'è più da diversi anni e che all'epoca stava in una casa-alloggio a Trieste; aveva la SMA come me, ma non la fortuna di disporre di una rete familiare e di amicizie che la potesse aiutare, consigliare e sostenere. Ci eravamo conosciute tramite una Oss che lavorava nella sua comunità alloggio e che aiutava me nel periodo in cui abitavo nella casa dello studente all'università di Trieste. Essendo poche le persone con la nostra patologia, eravamo entrambe curiose di conoscerci e di confrontarci. Lei non poteva scendere in città e così, grazie ad un amico che guidava il mio furgone, un giorno sono andata a trovarla. Da subito ha iniziato ad aprirsi e a raccontarmi la sua vita, i suoi sogni e desideri infranti a causa del galoppare della malattia. Tra questi, non potrò mai dimenticare, voleva avere un rapporto con un uomo prima di morire ed era disposta a trovarne uno a pagamento, doveva solo usare il telefono per rispondere a un annuncio trovato su un giornale (all'epoca non si usava molto internet) ... Ebbene, la Oss alla quale aveva confidato questa sua volontà - e che sperava potesse aiutarla - le aveva impedito di usare il telefono, perché riteneva (come se il suo parere fosse legge per Antonella) che il primo rapporto sessuale dovesse avvenire solo per amore. Non aveva nemmeno provato a comprendere le ragioni di Antonella; aveva deciso per lei, senza riflettere sul fatto che stava impedendo ad una persona, seppure con una grave patologia degenerativa, di vivere e quindi di essere libera di scegliere e anche di sbagliare, di provare una cosa che per molti era normale, ma per altri poteva non esserlo. Questa non è forse una forma di violenza?

(Alessandra Ferletti)

 

Serena

Recentemente, la mia amica Serena (nome di fantasia) mi ha raccontato di aver conosciuto un ragazzo su un fan group di una serie TV su Facebook: dalle prime chattate relative ad episodi della serie TV, hanno iniziato a parlare di altro entrando sempre di più nelle rispettive vite private fatte da quotidianità, paure ed ambizioni. Lei gli ha parlato della sua disabilità, per cui usa una carrozzina, e di come proprio il non aver un corpo longilineo fosse stato fonte di forti sofferenze nelle relazioni sociosentimentali passate ma che, non senza fatica, stava affrontando ciò attraverso un lavoro su sé stessa; lui, quindi, le aveva chiesto di mandargli una foto e, dopo qualche reticenza, Serena gliene aveva inviata una in costume. Il ragazzo allora ha iniziato a fare affermazioni pesanti, del tipo “ovviamente è normale che preferirei avessi il corpo come una donna normale, ma non importa”, “pensavo che il tuo problema fosse più lieve”, “sono sincero, trovo che tu sia meno sensuale ma credo che non sia messa male, solo la posizione rende il tutto un po' brutto all'occhio”. Ho visto smarrimento negli occhi di Serena, come se stesse rivivendo nuovamente tutte quelle offese: mi ha confidato di essersi sentita una cavia da laboratorio che veniva esaminata da lui in ogni sua parte. Quelle parole hanno agito come una lama penetrando nelle arcaiche ferite ancora aperte che lentamente si stavano rimarginando: è stato un buttarla giù ancora una volta, sbatterle in faccia il divario tra lei e “un'altra” nonostante qualsiasi lavoro su sé stessa potesse fare. E ciò che è stato peggio è che il ragazzo non si rendeva conto delle offese recate continuando a giustificarsi con l'essere stato sincero al posto di tutti gli altri che, a suo dire, usavano pietismo a causa della disabilità di Serena. Arrogandosi addirittura la pretesa di sapere come una ragazza in carrozzina viene trattata e come invece si dovrebbe fare, sfoderando un meccanismo abilista ai massimi livelli. Questo è essere subdoli, velatamente manipolatori, superficiali e superbi. Questa è una cosa che non può essere giustificata perché arreca dei danni alla psiche di una persona, non rispettandone la dignità. E allora bisogna chiamarla col suo vero nome: violenza.

(Silvia Lisena)

 

A cura del Gruppo Donne UILDM

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