Le possibilità della Realtà Virtuale

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Gabriele Gramaglia è psicologo, psicoterapeuta, supervisore e, oltre alla libera professione, ha la responsabilità di tutta la didattica in BECOME, una società che sviluppa psicotecnologie per contesti clinico-sanitari, organizzativi, sportivi e del benessere, valorizzando tecnologie contemporanee quali la Realtà Virtuale e la bio/neurosensoristica. Accomuna questa attività con quella di Senior Manager di Comunicazione presso la Direzione Generale del terzo gruppo bancario italiano. Svolge attività di supervisore d’equipe in strutture residenziali psichiatriche ed è co-fondatore del Centro La Crescita per la progettazione di corsi di formazione rivolti a privati, aziende e scuole. A lui è stata affidata la formazione della professionista che a sua volta si occuperà di seguire i laboratori con i visori di realtà virtuale del progetto "Vivo il presente e affronto il futuro" di UILDM Sassari.

 

Per il progetto “Vivo il presente e affronto il futuro” di UILDM Sassari verranno utilizzati dei visori che accompagneranno le persone con disabilità a vivere esperienze di trasformazione. Per rendere questo percorso il più efficace possibile, si occuperà di formare la psicologa che seguirà a sua volta questi laboratori. In cosa consiste la formazione all’utilizzo di questo strumento?

Nella formazione che eroghiamo in Become cerchiamo, oltre al necessario addestramento sull’utilizzo dei protocolli e dei visori, di raccontare il lavoro meticoloso che mettiamo nella progettazione e realizzazione delle esperienze immersive, ovvero i video (ma dovremmo chiamarli più propriamente “corti cinematografici”) in realtà virtuale che le persone sperimentano attraverso i visori. Avere consapevolezza delle basi scientifiche e conoscere le ragioni che hanno portato alla scelta di specifici scenari, oggetti, situazioni e narrazione, mette in condizione il Professionista di applicare lo strumento nella piena convinzione della sua efficacia. In termini pratici la formazione, che per andare incontro ad ogni esigenza può essere effettuata in aula o tramite videolezioni (FAD asincrona) oppure ancora in modalità “onlive” (attraverso videoconferenza sincrona), parte da una illustrazione teorica dei fondamenti sui quali si basa il protocollo e, via via, diventa sempre più esperienziale, con esercizi e simulazioni che consentono alla fine della sessione di avere piena confidenza nella metodologia e nello strumento.

 

In qualità di responsabile didattico di Become ha un punto di osservazione interessante: da quanto tempo la Realtà Virtuale è entrata a far parte dei percorsi terapeutici e quanto è conosciuta tra i suoi colleghi psicologi e psicoterapeuti? Che tipo di riscontro ha avuto da chi di loro già la utilizza?

La realtà virtuale è oggetto di studio in psicologia da tanti anni ormai. I primi documenti scientifici sull’efficacia di questa tecnica risalgono alla fine degli anni ’90. Tuttavia, l’hardware a quei tempi era costosissimo (decine di migliaia di dollari), molto ingombrante, difficile da utilizzare e con una grafica piuttosto basica (che impediva quindi un forte realismo). Già ai tempi mi occupavo di questo argomento e avevo scritto un libro dal titolo “La Realtà Virtuale in Psicoterapia: scienza o fantascienza?”. Il quesito era assolutamente pertinente a quell’epoca perché al di là dell’utilizzo nei laboratori a scopo meramente scientifico, io stesso facevo fatica a credere che un giorno tutto questo sarebbe diventato una realtà concreta a disposizione dei professionisti.

L’evoluzione tecnologica, però, ha compiuto il miracolo producendo negli ultimi anni visori per il mercato consumer che hanno dimensioni, facilità di utilizzo e, soprattutto, prezzi assolutamente abbordabili. L’integrazione della Realtà Virtuale nella pratica clinica quotidiana è stata una logica conseguenza di questa evoluzione tecnologica. Prima da parte dei cosiddetti early adopters ma, via via, sempre più diffondendosi nella comunità degli psicologi e degli psicoterapeuti.

Oggi l’utilizzo di questa tecnica da parte dei professionisti della salute mentale è in forte espansione, e lo sarà sempre più nelle nuove leve grazie ai percorsi universitari che hanno recentemente integrato argomenti di digitalizzazione psicologica all’interno dei loro programmi. I riscontri che i nostri Professionisti ci rimandano rispetto all’utilizzo di questa innovazione professionale sono molto incoraggianti: la possibilità di poter creare scenari ad hoc in cui immergere i propri pazienti, consente l’emergere di contenuti che avrebbero necessitato molto più tempo e fatica con pratiche tradizionali. In più, questa modalità è molto gradita ai pazienti che nella maggior parte dei casi sperimentano per la prima volta la Realtà Virtuale e questo aumenta la loro motivazione al cambiamento positivo.  

 

Grazie ai visori, chi convive con una malattia come la distrofia può affrontare situazioni virtuali utili poi nella realtà: il benessere psicologico fa sempre più parte della presa in carico del paziente. Quali prospettive future ci aspettano secondo lei in questo ambito?

È ragionevole ritenere che la veloce evoluzione dell’hardware possa dare un ulteriore “boost” alla pratica clinica aumentata dalla Realtà Virtuale; sono già stati realizzati prototipi di visori la cui grafica è tale da rendere quasi indistinguibile la realtà fisica da quella virtuale. Oggi il loro costo è ancora proibitivo ma, esattamente come è avvenuto per gli attuali modelli, nel breve-medio termine saranno disponibili nel mass-market e tutto questo si tradurrà nella possibilità di estendere ulteriormente gli ambiti di utilizzo, introducendo protocolli sempre più personalizzati rispetto ai disturbi mentali e, più in generale, ai disagi delle persone. In particolare, per popolazioni con difficoltà progressiva nella mobilità come, ad esempio, soggetti affetti da distrofia muscolare, la Realtà Virtuale attraverso protocolli clinici specifici può essere un ottimo aiuto per attività di riabilitazione e, nei casi più gravi, per consentire una “evasione” molto realistica in luoghi e situazioni a cui la malattia non consente più di accedere o sperimentare. 

 

di Chiara Santato

 

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