In che cosa consiste lo studio curato dal suo gruppo di ricerca, riguardante le distrofie di Duchenne e Becker e centrato sulle nanoparticelle e l’exon-skipping?
«La nostra ricerca, finanziata da Telethon, ha come scopo quello di identificare dei sistemi di trasporto e di rilascio, che sono appunto le nanoparticelle, per le molecole antisenso. Il tutto per migliorare l’efficienza e l’efficacia di queste ultime e quindi l’exon-skipping, che induce l’effetto terapeutico nei tessuti dei pazienti, quindi nei muscoli e nel cuore».
Rispetto all’approccio denominato exon-skipping - che da alcuni anni è al centro di diversi studi - può spiegarci come si collocano ora le nanoparticelle rispetto allo stesso?
«Le nanoparticelle sono composte di “nanomateriale inerte” che assomiglia molto al materiale con cui da molti anni si realizzano le protesi per l’anca. Praticamente il cuore delle nanoparticelle è biocompatibile e biodegradabile, mentre all’esterno abbiamo costruito noi stessi dei “ponti” carichi di molecole in grado di legare gli antisenso, i quali, tra l’altro, grazie alle stesse nanoparticelle possono essere somministrati in dosi molto inferiori, mantenendo tuttavia l’efficacia.
Gli antisenso sono, appunto, le molecole che inducono l’exon skipping e quindi hanno l’effetto terapeutico di aumentare la distrofina prodotta. Per semplificare e rendere quanto più chiaro possibile questo concetto, possiamo dire che le nanoparticelle svolgono il ruolo di “navette”, in quanto legano, trasportano e rilasciano gli antisenso».
In precedenza altri studi o ricerche avevano focalizzato l’attenzione sulle nanoparticelle?
«No, si tratta di elementi nuovissimi che abbiamo sintetizzato noi per la prima volta e utilizzato per la prima volta come navette delle molecole antisenso. Per questo abbiamo anche potuto brevettarli».
È possibile che esse si rivelino utili anche in altri ambiti di ricerca?
«Assolutamente sì; infatti, stiamo già lavorando anche su altre possibili patologie che potrebbero trarre giovamento dall’utilizzo di queste nuove nanoparticelle, che fungerebbero sempre da cosiddetto “sistema di trasporto”. Vorrei ribadire, infatti, che le nanoparticelle non hanno un effetto terapeutico proprio, bensì il loro effetto deriva dalla capacità che esse hanno di trasportare “in giro” molecole e farmaci».
Tornando allo studio nel suo complesso, quali sono le prossime attività previste?
«Dopo avere dimostrato che queste particelle hanno un’ottima capacità di trasporto delle molecole, ci stiamo focalizzando sulla comprensione di come le stesse vengano poi eliminate. Da questo punto di vista stiamo lavorando ancora sui topi, ma riteniamo che questo sia l’ultimo aspetto importante da accertare, per poi valutare un’applicazione nell’uomo, chiaramente a livello di trial. Inoltre stiamo valutando se le nanoparticelle consentano la somministrazione di molecole antisenso attraverso il cibo - e quindi per bocca - ovviamente, per ora, nel modello animale».
A tal proposito, avete per caso rilevato al momento delle “controindicazioni” o registrato le prime avvisaglie rispetto al fatto che le nanoparticelle possano non essere positive per l’organismo?
«No, nessuna. Si tratta infatti di particelle che non hanno alcun effetto tossico, non sono immunogene, non richiedono nessun tipo di trattamento ulteriore. Come dicevo, l’unico problema che adesso stiamo studiando - con l’ultimo progetto Telethon partito verso la fine del 2009 - riguarda il tempo che il nostro organismo impiega ad eliminarle. Per tutti gli altri aspetti, infatti, abbiamo già le necessarie evidenze che le particelle non hanno alcun effetto tossico».
E nel caso in cui l’eliminazione da parte del nostro organismo fosse molto lenta e lunga, sarebbe un problema?
«Sì, sarebbe un problema, ma noi non crediamo che sia così, poiché la maggior parte delle particelle viene eliminata attraverso le feci, quindi tramite un processo estremamente fisiologico».
Solo un ulteriore chiarimento: non essendo le particelle tossiche, perché una loro permanenza troppa lunga nell’organismo costituirebbe un problema?
«Sarebbe un problema dal punto di vista farmacologico, perché essendo le distrofinopatie [Duchenne e Becker, N.d.R.] delle patologie croniche, questa sarebbe una terapia da fare per tutta la vita e quindi è evidente che noi dobbiamo avere dei dati che ci dimostrino che queste particelle, più o meno in due, tre mesi, vengano eliminate. Infatti, pur non essendo tossiche, se si pensa che potrebbe succedere di dover tenere una persona in terapia per sessanta, settant’anni, non sarebbe possibile farlo senza questo tipo di riscontro rispetto alla loro eliminazione. Solo sapere molto bene in quanto tempo questa avviene ci permetterà di capire come procedere per avvicinarci a un trial clinico».
È possibile fare delle valutazioni sul tempo necessario per arrivare alla conclusione dell’intero progetto?
«Tra due anni noi avremo in mano tutte le risposte necessarie per quanto riguarda il comportamento delle particelle. Solo in quel momento, quindi, sapremo se queste saranno dei veicoli utilizzabili oppure no in trial clinici. Siamo praticamente alla fase finale del nostro lavoro».
Nel caso in cui tra due anni le particelle si rivelassero utilizzabili in trial clinici, quanto tempo potrebbe passare da quel momento alla concreta realizzazione di quei trial?
«È veramente difficile dirlo oggi perché le procedure per approdare a nuovi farmaci sono molto complesse e passano tutte attraverso l’EMEA [European Medicines Agency, N.d.R.]; quindi c’è un percorso obbligato che tuttavia ci dev’essere perché è a garanzia del paziente. Senza dubbio, però, se le particelle si dovessero rivelare utili, ci rimboccheremmo le maniche e cercheremmo di fare il più in fretta possibile».
Lo studio riguarda tutti i pazienti con Duchenne e Becker o solo una parte di essi?
«Con questo progetto, al momento, stiamo indagando l’approccio delle nanoparticelle solo su pazienti con distrofia di Duchenne, della quale stiamo cercando di studiare e considerare diversi tipi di mutazioni, non solo quelle più frequenti».
Parlando di nanoparticelle, ci risulta che i Centri che hanno collaborato a questo studio specifico siano solo italiani. Ritiene che questa cosa sia importante?
«Confermo il fatto che i quattro Centri coinvolti nel progetto sono tutti italiani. Una cosa, questa, che conferisce allo studio un ulteriore valore ed è - per Telethon e per i nostri pazienti - garanzia di trasparenza e di grande impegno. Infatti, questi finanziamenti di Telethon interamente usati “a casa nostra”, uniti al nostro investimento di ricerca e di impegno scientifico, contribuiscono a far crescere le nostre competenze e la nostra credibilità.
Senza dubbio, anche le collaborazioni tra Centri e ricercatori di diversi Paesi del mondo sono molto importanti. Una cosa, però, sono le collaborazioni, altra cosa è utilizzare un finanziamento Telethon - squisitamente italiano - per lavorare in Italia e far crescere la nostra ricerca nel nostro Paese. È uno dei grandi meriti di Telethon, quello di darci delle ricerche tutte italiane».
Con la sua grande esperienza che deriva da molti anni di ricerca e di lavoro in questo settore, che cosa si sente di dire ai nostri lettori, che nutrono verso le ricerche come questa grandi aspettative?
«Vorrei dire che oggi la terapia per alcune malattie neuromuscolari - e probabilmente nel futuro anche per molte altre - non è più soltanto una speranza bensì qualcosa che è già in corso, è realtà. Adesso più che mai, quindi, posso dire a tutti di continuare a supportare i ricercatori e in particolare - come organizzazione UILDM - di continuare ad aiutarli a mantenere i livelli di eccellenza che già ci sono in Italia. Focalizzando il più possibile, quindi, l’appoggio a quei Centri dove costanza, perseveranza, impegno, competenze, molti anni di esperienza e già ottimi risultati alle spalle rappresentano una grande base per gli importanti passi che si sta cercando in ogni modo di compiere in questo preciso e delicato momento, che fino a dieci anni fa sembrava ai più quasi impossibile da raggiungere.
Personalmente sono convinta che nelle distrofie muscolari siamo già passati dalla ricerca di base a quella “traslazionale”. La ricerca di base non ha “obblighi” immediati sulla salute, è strutturata in modo differente, rappresenta la base di un’ipotetica piramide della ricerca, deve necessariamente essere “multivalente e creativa”. La ricerca traslazionale, invece, è più strutturata, più concreta e non si può improvvisare, specie nell’ambito di queste patologie. Essa deve avere ricadute sulla salute, e per questo motivo, per avere massimo successo, dovrebbe essere svolta in un contesto di assoluta eccellenza e consolidate capacità scientifiche e mediche. Diciamo cosi, più “centralizzata”, cioè in Centri dedicati o altamente integrati.
Non trovandoci più, quindi, in una fase di speranza, ma in una di concretezza e realtà, come “famiglia UILDM” continuate ad aiutare chi in tutti questi anni ha lavorato e continua a lavorare per accrescere ancora di più la possibilità di trattare il maggior numero possibile di persone con nuove terapie. È il momento di non disperdere alcuna risorsa e anzi cercare di concentrarle il più possibile. Solo in questo modo si riusciranno a raggiungere gli obiettivi di terapia e cura ai quali ci stiamo avvicinando».
*Direttore dell’Unità Operativa di Genetica Medica dell’Università di Ferrara.
Intervista concessa a Crizia Narduzzo nel febbraio del 2010.
Per ulteriori dettagli o approfondimenti:
Coordinamento della Commissione Medico-Scientifica UILDM (referente: Crizia Narduzzo), c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.
Data dell’ultimo aggiornamento: 15 novembre 2014.