Chiarezza sulla distrofia facio-scapolo-omerale - intervista a Rossella Tupler*

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Rossella Tupler Rossella Tupler alle Manifestazioni Nazionali UILDM

Alcune recenti scoperte aprono nuovi scenari per la distrofia facio-scapolo-omerale : «C’è ancora molto da fare - sottolinea Rossella Tupler - ma siamo sulla buona strada». E con la stessa Tupler, ricercatrice che da anni si occupa di questa malattia, torniamo a parlare, circa tre anni dopo una nostra precedente intervista.

Ci eravamo lasciati qualche anno fa, con una nostra ampia intervista in DM 169, definendo la distrofia facio-scapolo-omerale come una «malattia estremamente complessa», della quale sarebbe stato quanto mai necessario continuare a studiare i meccanismi di base. In tal senso ci sembra che anche recentemente vi siano state delle importanti novità. Qualche mese fa, ad esempio, si è parlato di uno studio - da lei coordinato - che rimetterebbe in discussione le stesse basi genetiche della patologia. Di che cosa si tratta esattamente?
«Che lo studio dei meccanismi alla base della distrofia muscolare facio-scapolo-omerale [d’ora in poi sempre FSH, N.d.R.] fosse complesso era prevedibile, visto che si tratta di una malattia in cui, ad oggi, non è stato possibile identificare un gene, codificante una proteina, che sia mutato nei pazienti affetti. Il difetto associato alla malattia risiede nel ridotto numero di sequenze di DNA (D4Z4), localizzate all’estremità del braccio lungo del cromosoma 4.
Per anni abbiamo cercato di capire come questo ridotto numero di elementi di DNA potesse causare la malattia. Il modello proposto si basava sull’idea che la riduzione del numero degli elementi ripetuti portasse all’anomala attivazione di geni vicini, con un effetto dannoso sul muscolo. Tra questi geni, DUX4 era stato indicato come il maggior “colpevole”, perché può essere trascritto dagli elementi di DNA ridotti nella FSH, in associazione con altre sequenze presenti nella regione».

E invece?
«Invece la situazione sembra essere molto più complicata. Nel 2008, infatti, grazie a un finanziamento Telethon, fu creato un consorzio che raggruppava i centri clinici di riferimento per le malattie muscolari presenti sul territorio nazionale e due laboratori che in Italia forniscono diagnosi molecolare per l’FSH, allo scopo di costruire un registro che raccogliesse i dati clinici e molecolari dei pazienti e dei loro familiari. La raccolta sistematica di questi dati ci ha permesso di capire che il 20% dei soggetti colpiti da FSH sono portatori di un numero ridotto di sequenze D4Z4 e che un’alta percentuale di parenti di pazienti FSH - portatori a loro volta dello stesso difetto molecolare - non mostra segni della malattia. Questo dato è entrato in conflitto con l’assunzione che l’FSH sia una malattia ereditaria autosomica dominante a penetranza completa e associata, nel 95% dei casi, con il ridotto numero di sequenze D4Z4.
Ebbene, sulla base di questi dati ci siamo chiesti se fosse possibile trovare nella popolazione generale molti più portatori sani di quanto atteso e così abbiamo analizzato la regione all’estremità del braccio lungo del cromosoma 4 in 801 persone sane raccolte dal Nord, dal Centro e dal Sud dell’Italia e dal Brasile. La nostra analisi ci ha permesso di trovare individui sani - raccolti casualmente - portatori degli stessi alleli trovati nei pazienti colpiti da FSH. La percentuale di questi soggetti è del 3%, percentuale, questa, sicuramente superiore alla prevalenza dell’FSH, che è di 5 su 100.000. È stato pertanto possibile stabilire che gli alleli D4Z4 rappresentano un comune polimorfismo genetico e non una rara mutazione».

In quale modo, dunque, questo studio ha cambiato le “carte in tavola”?
«Perché ora ci si deve domandare quali siano le ragioni per cui solo alcuni portatori della riduzione degli elementi D4Z4 sviluppino la malattia. È possibile che fattori diversi - in presenza o in assenza della riduzione degli elementi D4Z4 - possano contribuire allo sviluppo dell’FSH. Il nostro sforzo nel prossimo periodo sarà pertanto quello di studiare in modo sempre più accurato i pazienti e i loro familiari, per capire quali siano le basi della malattia. Da un lato ci aspettiamo che fattori genetici diversi possano contribuire allo sviluppo dell’FSH, dall’altro stiamo cercando di capire se - oltre a difetti genetici - possano avere un ruolo anche fattori che portano a modificazioni della cromatina (la struttura in cui è avvolto il DNA nel nucleo della cellula) o fattori ambientali».

Immaginiamo che, di conseguenza, non vi siano grosse novità dal punto di vista farmacologico.
«È così, proprio per il fatto che non essendo ancora chiaro - purtroppo - quale sia il meccanismo che porta a sviluppare la malattia, è assai arduo costruire una strategia terapeutica mirata. Del resto, i pochi tentativi di trattamento farmacologico finora attuati non hanno dato risultati incoraggianti e quindi si può dire che ad oggi sappiamo quali farmaci non abbiano effetto sulla malattia piuttosto che quali possano funzionare.
Attraverso poi il Registro Nazionale per l’FSH, stiamo raccogliendo informazioni anamnestiche dai pazienti, per identificare - se esistono - trattamenti o condizioni che modificano l’andamento della malattia. Crediamo che la raccolta di questi dati ci possa aiutare a creare una lista di farmaci o di condizioni morbose, utilizzabili nell’interpretazione del dato clinico e nella storia naturale della malattia».

Quindi ci sembra di capire che da diversi punti di vista il bilancio del Registro - frutto di un progetto Telethon-UILDM, da lei coordinato - sia quanto mai positivo…
«Lo confermo certamente. Se non avessimo infatti iniziato la raccolta sistematica di dati clinici dalle famiglie in cui sono presenti pazienti colpiti da FSH, non saremmo riusciti a capire che in molte persone l’essere portatore di un allele D4Z4 di dimensioni ridotte non necessariamente significa la certezza d’ammalarsi. Ad esempio, ci siamo accorti che tra i pazienti da cui si è iniziato lo studio (tecnicamente la persona viene definita come probando), il grado di severità della malattia è maggiore rispetto a quello rilevato tra i parenti portatori del difetto. Abbiamo inoltre scoperto altri elementi che ci possono aiutare nel valutare il rischio per i familiari portatori di sviluppare la malattia e anche nel prognosticare il rischio che la malattia si possa sviluppare in modo severo. Questi risultati saranno presto pubblicati affinché diventino utilizzabili nella pratica clinica quotidiana. E ancora, lo studio allargato di numerose famiglie ci ha permesso di individuare casi in cui solo il probando è ammalato, mentre i genitori e i fratelli sono sani. Un dato, questo, che indica come in una certa percentuale di casi l’FSH non sia trasmessa come carattere autosomico dominante e anche questa osservazione può essere molto importante per pazienti e famiglie.
Su questa linea stiamo pertanto cercando di capire anche di “quante FSHD” stiamo parlando. Infatti, dai nostri dati si intuisce che esistono almeno tre gradi diversi di malattia, una forma severa, una forma “classica”, che corrisponde alle descrizioni che si trovano sui libri di testo, e una più moderata che non sembra portare a gravi deficit. Anche questo aspetto può avere importanti ricadute dal punto di vista clinico e necessita di un maggiore approfondimento.
In conclusione, il Registro Nazionale per l’FSH si è rivelato uno strumento fondamentale per cominciare a comprendere come la malattia si sviluppa, quali sono le sue caratteristiche genetiche (modalità di trasmissione; significato diagnostico e prognostico degli allele D4Z4 di dimensioni ridotte; coinvolgimento di altri geni). Contiamo, nel futuro, di riuscire ad allargare lo studio delle famiglie, aumentando il numero dei pazienti coinvolti, per capire se al termine “distrofia muscolare facio-scapolo-omerale” corrispondano malattie con caratteristiche di severità diverse e se queste possano essere il risultato di meccanismi diversi. Chiaramente questo ci aiuterebbe grandemente nel capire le cause di questa patologia così complessa».

Molto lavoro ancora da fare, quindi…
«È così, ma credo anche che siamo sulla buona strada e che con la collaborazione di tutte le persone coinvolte in questo ambito possiamo raggiungere importanti risultati».

Aiuto alla lettura
Con queste rapide note, riferite ad alcuni termini di ambito genetico, usati in questa intervista, ci auguriamo di fornire ai Lettori un ulteriore contributo di chiarezza.
Allele: ogni variante di sequenza di un gene.
Autosomica dominante: trasmissione che avviene a causa di un’alterazione del DNA rappresentata in un solo elemento della coppia di cromosomi.
Autosomica recessiva: trasmissione che avviene a causa di un’alterazione del DNA presente in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi.
Fenotipo: insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un organismo vivente.
Genotipo: costituzione genetica di un individuo o di un organismo vivente.
Penetranza: frequenza con cui un allele (sia esso dominante o recessivo) si manifesta fenotipicamente all’interno di una popolazione.
Polimorfismo: quando due o più diversi fenotipi esistono contemporaneamente nella stessa popolazione.

*Università di Modena e Reggio Emilia.

Intervista concessa alla Redazione di DM nel giugno del 2009.

Per ulteriori dettagli o approfondimenti:

Coordinamento della Commissione Medico-Scientifica UILDM (referente: Crizia Narduzzo), c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.

Data dell’ultimo aggiornamento: 15 novembre 2014.

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Margaret

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