Marina e l'impegno per una comunità di storie da conoscere

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“Per l’impegno profuso nel superare stereotipi, luoghi comuni e ispirational porn nel racconto della disabilità. Per rappresentare nella comunicazione l’intera comunità di persone con disabilità con ironia e positività.” Con questa motivazione, la scrittrice Marina Cuollo ha ricevuto la menzione d’onore dell’ultima edizione del Premio Bomprezzi per i due anni di scrittura per Vanity Fair.

Nel post di ringraziamento su Facebook dice:

«[…] Al di là di tutto, di queste parole la parte che più mi rende fiera è il riferimento alla mia comunità. Per gran parte della mia vita mi sono mossa nel mondo senza la consapevolezza di avere una rete composta da persone che, pur avendo una vita diversa dalla mia, prova la medesima frustrazione: quella di vivere in una società che non prevede la tua esistenza. Osservare il senso di aggregazione e il desiderio di rivalsa di persone marginalizzate è tuttora un faro nella notte per me. Ed è per questo che oggi il mio investimento più grande è legato alle storie, perché quelle sono il primo elemento a farci capire che non siamo solə nel mondo […] mi auguro davvero che questo sia l’inizio di un cambiamento in cui le persone con disabilità possano finalmente essere padrone delle loro storie.».

 

Quando sei diventata padrona della tua storia? 

Non lo sono ancora del tutto, anzi, è un lavoro in continuo cambiamento. Spesso il giornalismo non racconta la mia storia in modo accurato: l’aspetto che occupa più spazio è quello della disabilità – che non rinnego ovviamente, fa parte di me – ma tutto il resto passa in secondo piano, il mio lavoro, le mie competenze. Credo che questo rifletta la situazione di altre persone con disabilità. Ci vuole tempo per diventare padroni della propria storia. Quando ho pubblicato il mio primo libro (A Disabilandia si tromba, n.d.r.) non ero consapevole, come sono oggi, di me stessa e sono certa che tra qualche anno maturerò altri dettagli della mia storia.

 

Per Vanity Fair ti occupi di raccontare storie che vivono spesso in ombra, segnate da pregiudizi. Qual è un tuo pregiudizio sul quale hai voluto lavorare?

A questo tipo di domanda rispondo così: per molto tempo non ho messo a fuoco l’abilismo che avevo interiorizzato. Ho dovuto decostruire l’immagine che mi ero fatta di me stessa, aspetti così sottili che mi fanno dire che la più grande fatica è individuarli. Faccio un esempio: ci ho messo tempo per mostrarmi per quella che sono in una foto a figura intera, con i miei ausili. Bisogna incontrare tante persone, parlare, confrontarsi per capirci meglio.

 

Oggi ti senti parte di una comunità ma è una conquista recente. Cosa diresti a chi invece non si sente parte?

Premetto che credo nel fatto che ognuno ha i propri tempi, non va messa fretta, non esiste una ricetta valida per tutti. Dipende da noi, dai vantaggi che abbiamo, dalla famiglia nella quale cresciamo, dagli incontri che facciamo nella vita. Un passo importante è uscire dalla zona di comfort e allargare la propria rete di dialogo, incontrare persone diverse da noi, che ti portano a punti di vista alternativi a quelli che potevi immaginare da solo.

 

Parlando del tuo percorso di affermazione, hai detto che ti sei fatta spazio un po’ alla volta: i social ti hanno sicuramente permesso di raggiungere molte persone e di rappresentare il tuo corpo in modo diretto. Questi mezzi di comunicazione come hanno contribuito secondo te a costruire la realtà dei corpi delle persone con disabilità?

Strumenti come i social hanno permesso a chi ha una disabilità di avere, prima di tutto, uno spazio di espressione che gli spazi fisici spesso precludono. Il mondo digitale ha permesso di raccontare ma non solo, anche di incontrare, fare comunità. Per i più giovani questo aspetto è davvero importante: frequentare i canali social significa veder rappresentati tanti corpi differenti dallo standard, che sicuramente su canali come quello della tv non si vedono, siano programmi o pubblicità. I social danno la possibilità di incontrare creator con disabilità che si espongono e prendono parola.

 

Hai una formazione scientifica ma per lavoro scrivi. Cosa ti danno queste due “anime”?

La parte scientifica mi ha dato il metodo, che porto con me quando scrivo. Spesso ci immaginiamo i creativi che a bordo di un treno, colti dall’ispirazione, scrivono ovunque, anche sui tovaglioli. Io sono l’opposto. Ho una tabella di marcia, orari e strumenti precisi, scalette. La scrittura ha dato però spazio al mio lato più creativo, ai miei pensieri.

 

Ami molto Napoli, la tua città natale. Questo legame così forte da dove nasce? Secondo te questa appartenenza ti ha plasmato?

Quando ero più giovane ritenevo Napoli la colpevole dei miei mancati obiettivi. Volevo andarmene, allontanarmi da problemi come l’accessibilità o le scarse occasioni lavorative. Poi per studio ho iniziato a viaggiare e ho scoperto che tutta l’Italia è alle prese con queste cose. Da qui ho iniziato ad apprezzare di più Napoli, la sento vicina e la mia scrittura ne è influenzata. Uso espressioni dialettali, similitudini, ed esperienze del mio vissuto. Come potevo non mettere nelle mie storie il cibo e la tavola, quando nella quotidianità sono centrali?

 

Chiara Santato

Ritratto di uildmcomunicazione

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