di Angela Berardinelli*
La miopatia sarcotubulare (MS) è stata descritta per la prima volta nel 1973 da Felix Jerusaleme collaboratori (Rochester, Minnesota, USA), in due fratelli hutteriti – i cosiddetti “tirolesi d’America”, un centinaio dei quali sbarcò a New York nell’Ottocento, proveniente dall’originario ceppo anabattista della Moravia – rispettivamente di 11 e 15 anni.
Entrambi presentavano ipotrofia e deficit di forza muscolare di entità lieve-moderata, con distribuzione prossimale (sui muscoli più vicini alla parte mediana del corpo) e simmetrica e riferivano difficoltà di modesta entità nell’attività fisica intensa. Poiché i genitori erano consanguinei, nonostante fossero sani, si ipotizzò che la malattia venisse trasmessa come carattere autosomico recessivo (presente cioè in entrambi gli elementi della coppia di cromosomi).
La patologia venne inquadrata come nuova entità sulla base delle peculiari caratteristiche strutturali: la biopsia muscolare evidenziò infatti modeste anomalie di tipo miopatico alla microscopia ottica, mentre quella elettronica consentì di individuare all’interno delle fibre dei vacuoli che non contenevano né materiale lipidico, né glicogeno, né anomale reazioni enzimatiche.
Altri due casi in Germania e Canada
Il problema venne dunque inquadrato nell’ambito delle miopatie congenite di tipo strutturale, ovvero affezioni della fibra muscolare nelle quali mentre la microscopia elettronica evidenziava anomalie di alcune componenti “strutturali” del muscolo, al tempo stesso non si ravvisavano, in microscopia ottica, fenomeni di necrosi-degenerazione e di rigenerazione delle fibre. Non a caso le miopatie congenite sono state a lungo – e in parte lo sono ancora oggi – classificate e conosciute in base a reperti definiti “ultrastrutturali”, come appunto la microscopia elettronica.
Successivamente vennero descritti altri due fratelli in età adulta (33 e 35 anni), nel sud della Germania, con analoghi aspetti alla biopsia muscolare e un quadro clinico caratterizzato da lieve deficit di forza muscolare iniziato intorno agli 8 anni. Ancora funzionalmente autonomi, il loro andamento clinico era però leggermente diverso: uno dei due presentava infatti un difetto di forza in sede prossimale con difficoltà a rialzarsi da terra, dolori muscolari correlati all’attività fisica, scapole alate e una modesta ipertrofia dei polpacci, mentre il quadro dell’altro era più lieve, con mialgie da sforzo di scarsa entità e modesto difetto di forza muscolare. La diversa severità clinica – pur nell’ambito di deficit modesti – era inversamente correlata all’età (più lieve il quadro del fratello più anziano).
Una nuova segnalazione risale poi al 1976: un gruppo di undici soggetti appartenenti alla comunità hutterita canadese, con una miopatia lentamente progressiva a sede prossimale (sui muscoli – ricordiamo ancora – più vicini alla parte mediana del corpo) e il coinvolgimento della muscolatura del volto.
In questi pazienti le caratteristiche bioptiche e cliniche dei casi precedentemente riportati si associavano a tratti clinici che ricordavano la distrofia facio-scapolo-omerale e a un moderato aumento delle CK.
Individuazione del gene
Successivamente, però, studiando altri casi e l’evoluzione di uno di quelli descritti originariamente, da un lato emerse che l’interessamento del volto non era una caratteristica comune, dall’altro venne dimostrato il coinvolgimento di un locus sul braccio lungo del cromosoma 9 (9q31-33). A questa entità clinica venne dato il nome di LGMD2H, ovvero distrofia dei cingoli (LGMD) autosomica recessiva (2) di tipo H.
Approfondendo ulteriormente le indagini su altri soggetti, è stato infine individuato il gene TRIM32come responsabile di tale forma e la mutazione nel medesimo gene è stata individuata finora in un gruppo di quarantasette soggetti provenienti da due sottogruppi degli hutteriti. È interessante notare anche che un’altra mutazione nel gene FKRP è stata invece individuata in ventuno pazienti provenienti da tutte e tre le suddivisioni degli hutteriti ed è associata al fenotipo clinico LGMD2I.
Caratteristiche cliniche sovrapponibili
Sulla base della provenienza hutterita dei soggetti nei quali è stata individuata la mutazione TRIM32 e del fatto che la miopatia sarcotubulare fosse stata descritta proprio in soggetti hutteriti, nel 2005 Schoser e altri (Friedrich-Baur-Institut di Monaco in Germania) hanno ipotizzato e dimostrato in quattro pazienti di quella comunità – con diagnosi di miopatia sarcotubulare – la mutazione TRIM32, suggerendo quindi che l’MS e l’LGMD2H fossero in realtà la stessa patologia, con espressione clinica un po’ diversa (varianti alleliche) e che quindi fosse la mutazione stessa a dare origine a quadri clinici molto differenti tra di loro (fino ad arrivare al confinamento in carrozzina).
È stato inoltre suggerito che il gene TRIM32 sia coinvolto nella generazione del reticolo sarcoplasmico o nel mantenimento della sua integrità strutturale nel muscolo scheletrico.
Malattie rare e senza cura
In sintesi si può dire quindi che la miopatia sarcotubulare è la variante allelica lieve dell’LGMD2H, che viene trasmessa con carattere autosomico recessivo (alterazione del DNA presente in entrambi gli elementi di una coppia di cromosomi). La sua definizione nosografica deriva dalle peculiari caratteristiche del muscolo riscontrabili alla microscopia elettronica.
Clinicamente l’esordio si colloca abitualmente in età infantile, ma è possibile anche alla nascita o viceversa in età adulta. Si tratta di una forma complessivamente benigna, con difetto di forza lieve, abitualmente prossimale e simmetrico e scarsa tolleranza allo sforzo fisico con comparsa di mialgie. Ispettivamente i pazienti presentano tendenza all’atrofia prossimale e all’ipertrofia dei polpacci. In alcuni casi è stato descritto anche un lieve interessamento della muscolatura mimica del volto e scapole alate. I riflessi sono normali o ridotti. Le CK possono essere poco mosse.
Nella forma LGMD2H, invece, si ha ugualmente un fenotipo clinico variabile, con esordio tra l’età infantile (8-9 anni) e l’età giovane adulta. Alcuni pazienti sono asintomatici pure in età adulta.
Clinicamente è presente uno sfumato deficit di forza prossimale, affaticabilità e difficoltà nel cammino di entità variabile. Nel tempo questa forma tende a progredire lentamente e di solito la deambulazione è conservata anche oltre i cinquant’ anni. Le CK possono essere poco mosse, ma anche nell’ordine delle migliaia e all’esame bioptico del muscolo si osservano pure alterazioni di tipo più propriamente distrofico (degenerazione, necrosi e rigenerazione) delle fibre muscolari.
Non vengono descritti coinvolgimento cardiaco e/o respiratorio. Si tratta comunque di forme molto rare per le quali al momento non esistono terapie risolutive.
*Fondazione Istituto Neurologico “Casimiro Mondino” di Pavia.
Testo aggiornato nel mese di agosto 2013.
Per ulteriori dettagli o approfondimenti:
Coordinamento Commissione Medico-Scientifica UILDM (Crizia Narduzzo), c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.