(S)Oggetti di desiderio. Donne con disabilità e desessualizzazione

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Articolo di Silvia Lisena, Gruppo Donne UILDM

L’enciclopedia Treccani definisce il termine “desessualizzazione” come la “privazione o perdita del carattere erotico o sessuale”, come per altro suggerisce il prefisso privativo latino “de-”. È qualcosa che si attua o si subisce – tu desessualizzi me, io sono desessualizzata da te.

La desessualizzazione è un fenomeno che riguarda anche, ma non solo, le persone con disabilità. E in particolare le donne con disabilità che già subiscono una doppia discriminazione sia in quanto donne sia in quanto persone disabili, come ampiamente discusso nel lavoro continuo di UILDM, FISH, AISM, AISLA e molte altre associazioni. Il centro antiviolenza per le donne con disabilità di Torino, il primo in Italia, ci restituisce un dato allarmante: da gennaio ha registrato ben 107 denunce. Chissà quante altre restano nel silenzio, perché infatti il grande problema consiste proprio nella mancata denuncia da parte delle donne con disabilità. In particolar modo per quanto riguarda il versante della violenza psicologica che non è facile riconoscere né da chi la subisce né da chi presta aiuto a una donna con disabilità maltrattata. Ed è qui che compare la desessualizzazione che è qualcosa di assolutamente subdolo, infatti si insinua nei meandri più stretti della nostra vita quotidiana e agisce come un camaleonte, per cui alla fine la sua fedina penale trova sempre un modo per restare intatta.

È per questo che io insisto nel definire la desessualizzazione come una vera forma di violenza. Indiretta, probabilmente, ma sempre violenza. Fa paura additare un determinato comportamento come violento, perché disponiamo già del nostro arsenale standardizzato di tipologie e modalità di atti violenti o molesti che la desessualizzazione sembra non presentare alcun requisito per rientrarci. Eppure ci rientra.

Con l’obiettivo di riuscire a far toccare con mano e comprendere appieno la complessità di questo fenomeno, ho raccolto alcune testimonianze di donne con disabilità che hanno subito desessualizzazione nel corso della loro vita.

Ho quindi individuato quattro macro-aree:

 

SFERA ASSISTENZIALE

 

G. è una donna con disabilità motoria che usa una carrozzina, non è autosufficiente e perciò necessita di un’assistente personale. Qui l’ortografia dovrebbe già far intuire le preferenze di G., tuttavia alcuni uomini rispondono al suo annuncio di ricerca candidandosi. Lei li rifiuta educatamente.
“Che sarà mai farsi lavare da un uomo? Siamo nel 3000”.
G. si è sentita dire queste esatte parole dalla persona di sesso maschile che si era candidata come assistente personale.

Ecco una chiara evidenza di desessualizzazione. Nel momento in cui G. viene vista solo come un corpo su cui esercitare un’azione meccanica, lei è automaticamente privata della sua componente femminile che la rende donna e che testimonia il suo sesso biologico, viene vista come un essere inanimato che come tale può essere maneggiato da chiunque. L’assistenza personale è un lavoro, ma qualsiasi impiego che richieda un contatto di qualsivoglia tipo con un’altra persona non è mai un mero lavoro asettico. E una donna con disabilità deve avere la facoltà di scegliere il sesso della persona che la assiste. È una questione di diritto.

 

SFERA AFFETTIVA

 

S. è una donna con disabilità motoria fidanzata con un uomo. Il loro legame, però, è valido soltanto all’interno delle mura della loro casa: infatti lui si rifiuta categoricamente di uscire in pubblico con lei alludendo al timore di eventuali giudizi da parte della sua famiglia o del suo gruppo di amici.

Ecco ciò che sembra essere un paradosso, ma che purtroppo conferma soltanto il fatto che l’hidden labour of disability (il lavoro nascosto delle persone con disabilità, ndr) non ha fine. S. percepisce l’esistenza di alcuni limiti che non le consentono di vivere la relazione sentimentale come lei vorrebbe proprio a causa della non conformità del suo corpo che appare come una barriera insormontabile. Nonostante lei caratterialmente sia la fidanzata perfetta. Nonostante lei abbia comprato l’ultima edizione degli ombretti di Kiko Milano oppure quel vestitino davvero troppo carino da Tally Wejl. C’è qualcosa che la farà sempre sbattere contro la convinzione di non essere mai abbastanza.

 

Anche M., insegnante con disabilità motoria, ha subito lo stigma della desessualizzazione in età adolescenziale: infatti tutti i suoi compagni di classe non credevano che lei potesse avere un fidanzato e, nel momento in cui aveva una relazione, sostenevano che lo avesse pagato per quella che definivano una messinscena. In prima superiore era fidanzata con uno dei rappresentanti d’istituto e, durante una riunione scolastica nell’Aula Magna, sempre un suo compagno di classe ha chiesto a lui davanti a tutti come facesse a stare con M.
Un’altra volta, il ragazzo con cui M. era insieme l’aveva aiutata a salire su una corriera non accessibile prendendola in braccio e caricando poi la carrozzina, successivamente si erano baciati e una signora aveva esclamato: “Che gentile tuo fratello!”, dimostrando di preferire credere a un incesto piuttosto che alla possibilità che una donna con disabilità potesse avere una relazione sentimentale.
Lo stesso stupore era stato manifestato anche quando M. e il suo fidanzato avevano partecipato a una festa e si erano mostrati in atteggiamenti intimi e inequivocabili, fino ad arrivare ai tempi recenti in cui una collaboratrice scolastica continuava a stentare a credere che colui che stava accompagnando M. al lavoro fosse davvero il suo fidanzato.
Adesso M. non si sente più tanto male, ma ricorda che in adolescenza tutta questa meraviglia da parte delle persone esterne la faceva sentire a disagio portandola addirittura a chiedersi se per caso non fosse vero che quel ragazzo stesse con lei soltanto per qualche scommessa.

 

 

E. è una donna con disabilità motoria. Prima di conoscere il suo attuale fidanzato, si era iscritta a un’app di dating online per conoscere qualcuno. Grazie alla mediazione dello schermo, infatti, capita che alcune donne con disabilità si sentano “protette” proprio perché riescono a interagire senza che la prima cosa che salti all’occhio sia la loro disabilità... almeno fino al momento in cui si trovano costrette a dirlo, se non altro per prendere accordi in vista di un eventuale incontro.
Ecco che gli uomini con cui aveva chattato E. di colpo sparivano, adottando l’ormai nota tecnica del ghosting. Alcuni optavano per un blocco immediato del suo contatto, mentre altri si nascondevano dietro alla frase: “Sei troppo impegnativa”. Quando invece per loro era evidentemente troppo impegnativo uscire anche solo per prendere un caffè conoscitivo.

 

La stessa situazione è capitata a O., donna con disabilità motoria che usava app di dating online, e addirittura a lei sono state rivolte domande come “Ma puoi fare sesso anche se sei in carrozzina? Ma tu ti masturbi lo stesso?” che testimoniavano una curiosità morbosa al limite della molestia. Era come se il fatto di avere una disabilità motoria o di altro tipo autorizzasse automaticamente l’interlocutore ad arrogarsi il diritto di scoperchiare in tal modo la vita di una persona.
È poi da raccontare un’ultima esperienza di O. dove si è sfiorato subdolamente un meccanismo di manipolazione psicologica: stava ricevendo attenzioni da un uomo che però non le interessava e che, dopo il suo rifiuto, le ha scritto “Visto che hai di fronte un ragazzo serio che non si ferma alle apparenze dovresti apprezzarlo dal momento che la maggior parte delle persone troverebbe il tuo stare in carrozzina limitativo e vincolante. E quindi da escludere.”. O. ha avuto la forza di interrompere i contatti, ma questa pressione psicologica rischia di indurre molte donne con disabilità a cedere senza considerare i propri bisogni e desideri.

 

Queste storie sono emblematiche anche per spiegare una sorta di paradosso a cui può portare la desessualizzazione.
Se una donna con disabilità non viene (mai) vista come possibile oggetto di desiderio erotico e sessuale, ciò a cui rischia di aspirare fortemente è l’estremo opposto, cioè essere oggettivizzata. Quando parliamo di catcalling lo additiamo legittimamente come pratica deplorevole e deumanizzante, ma inconsciamente parte dalla considerazione della donna come possibile oggetto di attenzioni sessuali (indesiderate). Esattamente ciò a cui non sono neanche lontanamente sottoposte parecchie donne con disabilità, e questo non è un bene. Essere viste come un oggetto e non essere proprio viste sono due concetti apparentemente antitetici, ma in realtà sovrapponibili. “Se io subissi catcalling, almeno sarei considerata una vera donna”, questo potrebbe arrivare a pensare una donna con disabilità. Giusto per quantificare la portata del problema e le conseguenze a cui va incontro, dato che, a causa della doppia discriminazione cui sono sottoposte, le donne con disabilità sono maggiormente esposte a episodi di abusi e violenze di ogni tipo.

 

A. è una donna con disabilità motoria. Quando era adolescente detestava parecchio le cene e i pranzi di Natale, perché per tutti i suoi parenti erano le occasioni per indagare sulla vita sentimentale di tutti i componenti, fidanzati o single che fossero. Ogni anno lei veniva puntualmente esonerata da questa sequela di domande, proprio come se l’idea che potesse avere una relazione sentimentale fosse pura utopia. Un meccanismo di questo tipo ha aumentato le insicurezze di A. che si percepiva brutta e goffa; anche adesso, in età adulta, continua a essere esclusa da tali discorsi, ma non le fa più così male.

 

T. è una donna neurodivergente con malattia rara che comporta difficoltà motorie e di mobilità. Il suo primo incontro con la desessualizzazione è avvenuto all’età di 13 anni a opera della sua famiglia: la madre le impediva di indossare magliette attillate sostenendo che non dovesse mostrare le proprie forme, mentre il padre le strappava le riviste al femminile in quanto racchiudevano anche rubriche sulla sessualità.
Più tardi, a seguito di una forte delusione sentimentale, la madre stessa aveva commentato “È difficile che un ragazzo possa volerti.”.

 

La famiglia, si sa, è il primo ambiente di contatto dell’individuo e, nel caso delle persone con disabilità, quello a cui si è più legati se non subordinati per tutta la vita o gran parte di essa. Se i genitori o i parenti instillano immagini e idee negative, rischiano di creare un danno abbastanza profondo e difficilmente riparabile alla persona stessa, soprattutto se si tratta di una donna con disabilità che appare ancora molto vincolata a un immaginario estetico.

 

SFERA SANITARIA

 

I. è una donna con disabilità che si reca dall’anestesista per decidere se e dove rimettere un PICC [Peripherally Inserted Central Catheter, è un catetere inserito nel sistema venoso centrale attraverso una vena periferica. Può essere utilizzato quindi per trattamenti nutrizionali, terapie farmacologiche in cui sia indicata la somministrazione venosa centrale, ndr]. o altro dispositivo. Valutando la non disponibilità di vene sulle braccia, il medico le propone di mettere un PICC all’inguine. I. si rifiuta spiegando che, essendo ingombrante, le impedirebbe del tutto di avere rapporti sessuali. Enorme è allora la sorpresa dell’interlocutore che, dopo averla guardata stranito, si lascia sfuggire l’esclamazione: “Ero convinto che non li avessi proprio questi pensieri!”.

 

L. è una specializzanda in Igiene e Medicina Preventiva con disabilità motoria. Durante una visita con un nuovo ginecologo, lei manifesta il suo desiderio di gravidanza, quindi il suddetto le chiede: “Ma puoi avere rapporti o dobbiamo ricorrere alla fecondazione?”.

 

Queste parole così struggenti e a tratti incredibili sottolineano l’urgenza di un immediato percorso di formazione per medici, infermieri e tutto il personale sanitario che non può assolutamente mancare di delicatezza e abbandonarsi a stereotipi e pregiudizi senza avere la minima accortezza di stare ferendo la persona con cui si trova a interloquire.

Inoltre, siccome tale atteggiamento di chiusura mentale è largamente diffuso tanto da essere dato quasi per scontato, le donne con disabilità sono maggiormente scoraggiate a raccontare e a denunciare casi di abusi, molestie, mancato riconoscimento della propria dimensione di donna, perché convinte dell’impossibilità di imbattersi in un ambiente sicuro in grado di ascoltare, accogliere e custodire quanto hanno da dire.

È in questa direzione che si muove l’indagine sull’accessibilità degli ambulatori ginecologici e ostetrici presentata nel 2022 dal Gruppo Psicologi e dal Gruppo Donne UILDM e che costituisce una versione aggiornata e rinnovata di quella già condotta da Simona Lancioni nel 2013. Qui il concetto di “accessibilità” è inteso in senso lato, sia come assenza di barriere architettoniche o di altro tipo, sia come disponibilità all’ascolto e alla presa in carico della paziente in quanto persona e non solo in quanto diagnosi di una patologia.
Già in questi anni sono stati fatti alcuni passi avanti: Padova, Napoli, Torino, Firenze, sono i nomi delle città in cui sono stati costruiti degli ambulatori accessibili.

 

SFERA RAPPRESENTATIVA

 

C. è una donna con disabilità motoria che adora lo shopping. Preferisce recarsi fisicamente nei negozi in modo da toccare con mano la merce e valutarne l’eventuale acquisto. Ha però constatato che molti negozi sono privi del camerino accessibile, per cui lei, trovandosi impossibilitata a provare i capi di abbigliamento, deve decidere se comprarli alla cieca oppure rinunciare. Alcuni negozi ce l’hanno, ma capita spesso che venga utilizzato come magazzino e che quindi non sia disponibile all’uso.
Una situazione più o meno analoga si verifica quando vuole acquistare prodotti di cosmetica e makeup: esistono grandi brand che allestiscono degli stand all’interno dei centri commerciali che però presentano un gradino per accedervi, risultando così un ostacolo per le donne con disabilità che vi si recano in completa autonomia.

 

Notiamo che atteggiamenti di questo genere non fanno altro che rendere evidente il fatto che per molte grandi marche di abbigliamento, makeup, cosmetica o quant’altro le donne con disabilità non rientrano nella gamma delle loro potenziali clienti. Non hanno diritto a poter sentirsi femminili, ad assecondare le loro voglie, a coccolarsi un po’. Semplicemente non esistono.
Non figurano donne con disabilità nelle pubblicità di qualsivoglia tipo, o meglio non figurano donne con disabilità che abbiano corpi non conformi ben evidenti.

Come può cambiare la mentalità umana se uno dei principali canali di comunicazione esclude parte della società?

Noi del Gruppo Donne UILDM siamo fermamente convinte che fare rete possa, a lungo andare, iniziare a determinare un cambiamento. Per cui speriamo che queste preziose testimonianze diventino per voi spunto di riflessione.
 

Come si può contrastare la desessualizzazione nel nostro quotidiano? Quali azioni o strumenti occorrerebbe mettere in atto? Abbiamo bisogno delle vostre idee perché è importante non spegnere mai la voce su questa tematica. Scrivete a gruppodonne@uildm.it per dare il vostro contributo.

 

>>> Intanto vi consigliamo un paio di testi a tema sessualità e disabilità:

Ritratto di uildmcomunicazione

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