SMA: lo stato dell’arte - intervista a Filippo Maria Santorelli*

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Filippo Maria Santorelli Vicepresidente della Commissione Medico-Scientifica UILDM, Filippo Maria Santorelli ne fa parte dal 2006

Forse mai come nell’estate di questo 2012, i principali organi d’informazione, nazionali e locali, si sono occupati di atrofia muscolare spinale (o amiotrofia spinale, SMA). Lo hanno fatto, però, in modo confuso e molto spesso impreciso, per parlare di un trattamento assai discusso, una “terapia per uso compassionevole”, basata sulle cellule staminali e riguardante alcuni bimbi affetti dalla forma più grave della malattia, la SMA di tipo I.
Di tale questione - che presenta anche significativi aspetti giudiziari - riferiamo ampiamente in altra parte del sito. Il momento, quindi, ci sembra senz’altro opportuno per fare il punto sullo “stato dell’arte” delle tante ricerche in corso sulla SMA e per questo ci avvaliamo della collaborazione di Filippo Maria Santorelli dell’IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa), vicepresidente della Commissione Medico-Scientifica UILDM.

Partiamo dalle “origini”, dottor Santorelli. Che cosa sono le atrofie muscolari spinali (SMA) e che cosa comportano?
«Si tratta di un gruppo di patologie dovute alla degenerazione delle cellule delle corna anteriori del midollo spinale, cellule deputate all’innervazione motoria della muscolatura scheletrica. Ne esistono diverse forme, classificate innanzitutto in base al difetto genetico sottostante e alla sede prevalente del difetto di forza muscolare. In termini generali, si tratta di un gruppo di malattie ereditarie, piuttosto frequenti nell’età evolutiva, caratterizzate da riduzione del tono muscolare ed eccessivo rilasciamento del tessuto (ipotonia muscolare), difetto di forza generalizzato (nelle forme più diffuse), ma prevalentemente a carico della muscolatura prossimale degli arti (quella più vicina al tronco) e riduzione/assenza dei riflessi osteotendinei.
Le forme più frequenti sono quelle legate ad alterazioni del gene SMN1, con grande variabilità clinica, da un esordio in genere molto precoce (primi giorni o mesi di vita, a volte addirittura nella vita intrauterina), a forme molto più lievi, con esordio più tardivo. Il difetto genetico è il medesimo per tutte queste forme. Va anche ricordato che le diverse forme non sempre sono nettamente distinguibili, ma si tratta di un continuum da quella più grave a quelle più lievi.
A queste grandi categorie sono comuni le principali problematiche cliniche, declinate in varia gravità e reciproca importanza per ciascun paziente. Caratteristica comune è la compromissione generalizzata e simmetrica della muscolatura, maggiore però a carico degli arti inferiori e in particolare dei muscoli più vicini al tronco. La sensibilità è sempre conservata (la persona sente il caldo, il freddo, il dolore ecc.) e il livello intellettivo è del tutto normale. Nelle forme più gravi, i pazienti non acquisiscono la capacità di stare seduti da soli; poi vi sono quelle in cui i bambini possono invece stare seduti da soli, ma non camminare; e infine le forme più lievi, che consentono l’acquisizione della deambulazione autonoma. Globalmente i problemi respiratori possono essere rilevanti, mentre il cuore non è mai interessato e sono proprio i problemi respiratori a condizionare la prognosi.
La forma più grave è la SMA di tipo I (nota anche come malattia di Werdnig-Hoffman), in cui il deficit neuromotorio è generalizzato e gravissimo. Il bambino giace immobile, anche se la vivacità dell’espressione del volto contrasta con questa globale immobilità. La muscolatura respiratoria è compromessa e di solito in modo così grave da essere fatale entro i primi anni di vita, sebbene esistano rari casi con fluttuazione della malattia e sopravvivenza più lunga. A questa forma possono associarsi anche difficoltà nella deglutizione e reflusso gastroesofageo che, insieme, contribuiscono ulteriormente ai problemi respiratori».

Quali sono, oggi, le più rilevanti sperimentazioni cliniche in corso?
«Ad oggi, va ricordato, non esistono terapie risolutive e generalizzabili nella SMA. La ricerca sta proponendo quindi almeno tre tipi di approcci allo studio di una cura.
Il primo è quello farmacologico, con sostanze neuroprotettive (ad esempio il riluzolo o nuovi agenti neuroprotettivi) oppure con salbutamolo e valproato, capaci di ottenere una maggiore quantità di proteina SMN completa. Tuttavia, guardando ai bimbi con SMA di tipo I, questi studi non hanno ancora ottenuto grandi riscontri, non avendone migliorato le capacità motorie. Oppure non hanno ottenuto definitiva validità in studi clinici cosiddetti in doppio cieco randomizzato, ossia ricerche che confrontino due popolazioni di pazienti, a una delle quali viene somministrato il farmaco e all’altra no, in modo casuale, senza che né il paziente né il medico ne siano a conoscenza.
Il secondo approccio è quello della tecnica dei vettori virali, capaci di trasportare il gene corretto, ancora in fase di test per i molti effetti collaterali che potrebbe provocare, e quello della somministrazione di oligonucleotidi antisenso, che finora sono ancora da analizzare bene nei modelli animali di laboratorio.
Il terzo approccio, infine, è quello delle cellule staminali, delle quali esistono svariati tipi: embrionali (la cui produzione è vietata in Italia), fetali o adulte. Al momento non vi sono dati robusti di trial clinici con cellule staminali, ma in varie strutture - anche italiane - si sta studiando in maniera rigorosa e scientificamente solida l’efficacia su modelli sperimentali di malattia.
Altrettanto importante da segnalare è che anche nelle SMA la ricerca clinica si sta occupando delle scale di valutazione e dell’individuazione di misure di progressione di malattia che consentano di disegnare e valutare al meglio eventuali trial sperimentali».

Quindi si può dire che anche le cellule staminali saranno d’aiuto nel combattere la SMA.
«Come detto, al pari degli altri approcci della ricerca di base, l’interesse per l’uso delle cellule staminali continua alacremente, anche perché la ricerca è fortemente attiva nell’analizzare su modelli cellulari ottenuti dai pazienti, oppure nei modelli animali della patologia, la possibilità di rimpiazzare le cellule nervose che sono andate incontro a degenerazione».

Quali trattamenti vengono oggi attuati sulle persone e con quali risultati?
«I vari interventi vanno “modellati” sulle esigenze del singolo caso e della specifica situazione. Globalmente i punti cardine del trattamento consistono in: gestione degli aspetti respiratori, sia come monitoraggio della funzionalità respiratoria sia del drenaggio delle secrezioni bronchiali e, quando necessario, con l’impostazione della ventilazione meccanica non invasiva; gestione delle problematiche nutrizionali, soprattutto rispetto alle difficoltà nel deglutire e un adeguato supporto nutrizionale; gestione e supporto della funzionalità motoria residua, al fine di garantire la maggiore autonomia funzionale possibile; presa in carico del paziente e del nucleo familiare nella sua globalità, con particolare attenzione agli aspetti emotivo-relazionali».

Che cosa si intende con “terapia per uso compassionevole”?
«In termini generali è noto nella comunità medica come “uso compassionevole” (traduzione dell’espressione inglese compassionate use) la condizione in cui un farmaco che non è ancora stato approvato per l’uso, viene somministrato a un malato terminale che non abbia altri trattamenti alternativi. L’idea alla base dell’uso compassionevole è che il paziente possa morire prima che il farmaco in sperimentazione clinica o in fase di ricerca sia approvato, e se si ha la possibilità di salvare la vita del paziente, si superino i rischi potenziali.
In pratica, questa procedura può essere applicata quando non esista una valida alternativa terapeutica al trattamento di patologie gravi, o di malattie rare o di condizioni di malattia che pongono il paziente in pericolo di vita. Il tutto, però, sempre seguendo le normative di legge regolamentate dal Decreto Ministeriale dell’8 maggio 2003, sull’Uso terapeutico di medicinale sottoposto a sperimentazione clinica».

*IRCCS Fondazione Stella Maris di Calambrone (Pisa), vicepresidente della Commissione Medico-Scientifica UILDM.

Intervista concessa alla Redazione di DM nel settembre del 2012.

Per ulteriori dettagli o approfondimenti:

Coordinamento della Commissione Medico-Scientifica UILDM (referente: Crizia Narduzzo), c/o Direzione Nazionale UILDM, tel. 049/8021001, commissionemedica@uildm.it.

Data dell’ultimo aggiornamento: 15 novembre 2014.

Ritratto di admin

Margaret

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